Blue Sky Bones

Il primo film da regista del padre del rock cinese, Jian Cui, è un melodramma a tempo di musica tra rap, rock e Rivoluzione Culturale. Passato e presente che si sovrappongono in una storia (forse) volutamente disorganica e incompiuta, il cui fascino consiste proprio nell'anarchia di forma e contenuto, impreziosita dalla splendida fotografia di Christopher Doyle.

Blue Sky Bones (Lanse gutou) segna l’esordio alla regia di Cui Jian, ovvero il più famoso rocker del panorama musicale cinese contemporaneo. Vero e proprio pioniere del rock in patria, poco noto sicuramente da noi, in Cina è una vera e propria icona, anche perché il suo nome è legato agli eventi politici della Primavera Democratica Cinese alla fine degli anni Ottanta, un simbolo per gli studenti nelle rivolte di Piazza Tienanmen, e di conseguenza violentemente osteggiato dal sistema per tutto il decennio successivo. Inevitabilmente quindi la sua opera prima, presentata in concorso al Festival di Roma 2013, nasce sotto il segno della musica e della politica, una sorta di melodramma sulla Rivoluzione Culturale in salsa rock, non un musical, non un film sulla musica, per stessa ammissione del regista, ma un film fatto di musica e che ha l’energia della musica. Zhong Hua, il protagonista, è un musicista, un compositore e un hacker, nella Pechino contemporanea.

Ripensa alla storia della sua famiglia, a sua madre, la donna più bella della Rivoluzione Culturale, “la prima hippie cinese” che vent’anni prima era stata condannata ai lavori in campagna a causa di una canzone all’epoca sovversiva da lei scritta intitolata “La stagione perduta“. E del padre, l’uomo che ha conosciuto, amato e infine odiato, che un giorno scappa da lei portando il figlio ancora piccolo con sé, quando la donna scopre che lui è una spia. “Mia madre è uno schianto, mio padre una spia e io sono un hacker“, così riassume la storia Zhong Hua in una sua canzone, quella Blue Sky Bones nel cui rap rock racchiude tutta la sua rabbia di figlio perduto di una stagione smarrita, nella quale le parole di oggi si fondono con quelle di ieri, quelle della “Stagione perduta” scritta dalla madre vent’anni prima, che ha segnato il destino della sua vita. Il ragazzo è lo specchio di una generazione di un paese, che per trovare identità nel proprio presente non può non fare i conti con un ingombrante passato, e ciò non è facile perché “gli anni ’70 in Cina oggi sul web sono come sfuocati, quasi non ce n’è memoria”.

Un’opera evidentemente imperfetta questa di Jian, con una storia tra dramma e melò che si dipana in maniera (volutamente) confusa, con i diversi piani narrativi che si sovrappongono tra passato e presente, la voice over del protagonista che racconta la storia mentre le immagini delle stesse scene si riavvolgono e si ripetono più volte viste da varie angolazioni, i tre sguardi dei tre protagonisti che si fondono l’uno con l’altro: d’altronde Jian non pretende comprensione, ma aspira al coinvolgimento. Impreziosito dalle splendide immagini di Christopher Doyle, direttore della fotografia prediletto da Wong Kar-Wai, che condivide la stessa filosofia di potere evocativo dell’immagine che va oltre il canone narrativo del film, d’altronde “non si può chiedere ad un dipinto di giustificare sé stesso“. Inorganico, disomogeneo ed inevitabilmente incompiuto, nello stesso tempo il film possiede però una sua potenza evocativa ed è capace di provocare suggestione nello spettatore, che seppur confuso, non rimane indifferente. Antitetico e di rottura rispetto ai canoni di cinema orientale, con i suoi tempi dilatati e i suoi elogi della lentezza, rappresenta un esperimento interessante che ha il suo fascino maggiore probabilmente proprio nelle sue imperfezioni e nella sua anarchia di stile e di contenuti.

Alessandro Antinori per Movieplayer.it Leggi