The White Storm

"The White Storm" è un prodotto che guarda indietro, agli archetipi di almeno trent'anni di cinema di Hong Kong, rielaborandoli però alla luce di una sensibilità assolutamente moderna.

Tre amici d’infanzia, tre percorsi diversi all’interno del corpo di polizia di Hong Kong: Tim, ispettore capo della narcotici, ambizioso e spregiudicato, che ha scelto di dedicare la sua vita alla lotta al crimine; Chao, infiltrato da anni in un’organizzazione criminale, sempre più lacerato tra la fedeltà ai suoi colleghi e la sua vita nei bassifondi, desideroso soltanto di tornare a un’esistenza normale con sua moglie, appena rimasta incinta; Wai, agente rimasto sempre all’ombra degli altri due, coscienzioso e col costante desiderio di ottenere da loro un riconoscimento. Dopo anni di attesa, per Tim sta per prospettarsi finalmente l’occasione di una vita: la gang in cui il suo amico Chao è infiltrato, infatti, sta per portare a termine un affare con il più temuto signore della droga del sud-est asiatico, un enigmatico e inafferrabile criminale che si fa chiamare Eight-Faced Buddha. Se la cattura del boss andrà a buon fine, Chao potrà terminare la sua missione sotto copertura, e dedicarsi di nuovo alla sua famiglia, mentre la carriera di Tim farà un salto determinante. Durante il tentato arresto, però, qualcosa va terribilmente storto, e gli esiti dell’operazione portano conseguenze drammatiche.

Se, negli ultimi anni, la cinematografia di Hong Kong sembra aver guadagnato qualcosa in termini di cura della “confezione” e di levigatezza dei prodotti, con sceneggiature generalmente più classiche e leggibili rispetto alla media dei prodotti degli anni ’80 e ’90 (la saga di Infernal Affairs ne è un esempio) va detto che, almeno a livello mainstream, era mancata un po’ quell’impronta istintiva, insieme furiosa e spudoratamente melò, che aveva fatto la fortuna di questo cinema nel suo ventennio d’oro. A rimediare, con una classe e una consapevolezza fuori dal comune, ci pensa ora Benny Chan: regista che ha attraversato, con alterne fortune, il periodo migliore di questo cinema, ma che ha avuto il merito di consegnare ai posteri almeno un classico (A Moment of Romance, con un indimenticato Andy Lau) e molte pellicole apprezzabili, tra le quali vanno ricordate almeno New Police Story e Connected. Con The White Storm, però, il regista punta decisamente più in alto: portando avanti un’operazione che, nel suo carattere teorico e consapevole, si candida a diventare la sua opera più importante, facendolo uscire dal ghetto di mestierante e proiettandolo in un futuro che, per il cinema della ex colonia, sembra necessitare più che mai uno sguardo verso il passato prossimo.

In The White Storm, infatti, c’è tutto il cinema dei due decenni più significativi di Hong Kong, ma anche molto di più: l’heroic bloodshed di John Woo e Ringo Lam viene riportato in vita con un tale vigore, con un’aderenza così viva e pulsante alla materia, che film come A Better Tomorrow e City on Fire sembrano risalire solo a pochi anni fa. La rielaborazione autoriale del genere, la sua parziale “decostruzione” ad opera di Johnny To e della sua Milkyway, non sembrano abitare qui: l’impressione, tuttavia, a uno sguardo più attento, si rivela corretta solo in parte; perché Chan è debitore anche a To (come non esserlo, girando un noir a Hong Kong nel 2013?) principalmente nella geometricità della messa in scena. Eppure, le derive narrative più ardite del cinema della Milkyway vengono messe da parte: qui c’è una storia di eroi tragici che si immerge senza remore nel melò, e che, nel suo tratteggiare l’amicizia fraterna che lega i tre protagonisti, guarda addirittura più indietro, ai guerrieri di Chang Cheh e alle loro vicende cavalleresche. Il trait d’union che arriva al maestro del wuxiapian passa attraverso la rielaborazione della sua epica portata avanti da Woo negli anni ’80, ma l’abilità del regista è quella di non nascondere, ma anzi saper valorizzare, entrambe le influenze: Mantieni l’odio per la tua vendetta, qui, è presente tanto quanto Bullet in the Head, senza tralasciare la già citata lezione di To nel modo di mettere in scena l’azione. Tre decenni di cinema in un solo film: un risultato certo non da tutti.

Ma è tutt’altro che un film nostalgico o puramente elegiaco, The White Storm: la sua estetica, al contrario, prende tutto il meglio del moderno cinema cantonese (e non solo) mettendolo al servizio di un’anima che guarda a un passato, letteralmente, rivitalizzato e tornato ad essere feconda fonte creativa. La stessa estensione temporale del film (140 minuti, impensabili per un qualsiasi film hongkonghese di quegli anni) permette alla vicenda di articolarsi al meglio, di sviscerare le sue tematiche con un’accuratezza e un’organicità che, negli 85-90 minuti canonici che caratterizzavano i modelli di riferimento, raramente erano state raggiunte. Lo stesso tema della talpa, punto di partenza della storia e motivo tra i più classici di tutta la cinematografia noir di Hong Kong, si distacca presto dalle sue premesse, e va a legarsi con motivi distinti e collaterali, quali la moralità delle scelte e il destino. Tutte caratteristiche, queste, che fanno sì che la materia narrativa del film risulti viva e ancorata, saldamente, ai tempi moderni; rifuggendo assolutamente la mera operazione nostalgica. Il furore dell’azione, insieme alla componente strettamente patetica (e, chi ci ha seguito sin qui, capirà che non stiamo dando alcuna accezione negativa al termine) accompagna la vicenda in tutte le sue evoluzioni: fino a un finale emotivamente forte, in cui il senso del destino, insieme alla commozione per questi cavalieri erranti urbani, torna prepotentemente in primo piano. Un risultato che, allo scorrere dei titoli di coda, lascia emozionati e grati.

Marco Minniti per Movieplayer.it Leggi