Temporary Road – (Una) vita di Franco Battiato

Tanto sfuggente e impenetrabile appare il musicista siciliano, tanto il lavoro dei due registi è chiaro, puntuale e lineare e permette allo spettatore di comprendere qualcosa di più, non tanto del processo creativo di Battiato, ma della sua vita.

Non capita spesso di poter ascoltare le confessioni di un grande artista come Franco Battiato, protagonista del documentario diretto da Giuseppe Pollicelli e Mario Tani, Temporary Road – (Una) vita di Franco Battiato, presentato al Torino Film Festival nella sezione Festa Mobile. Tanto sfuggente e impenetrabile appare il musicista siciliano, tanto il lavoro dei due registi è chiaro, puntuale e lineare e permette allo spettatore di comprendere qualcosa di più, non tanto del processo creativo di Battiato, tenuto sempre a debita distanza, ma della sua vita, o meglio, il suo punto di vista sulla realtà umana.

Una lunga conversazione, effettuata durante la registrazione dell’album Apriti Sesamo, inframezzata da video di alcuni dei successi più popolari del cantante e da alcuni brani di film da lui diretti, come il biografico Perduto amor, Niente è come sembra o Musikanten. Dal documentario emerge il ritratto di una persona che ha trovato la pace interiore, che si è liberato dalle “catene delle passioni“. Il linguaggio di Battiato è intessuto di un misticismo quasi misterioso, che Pollicelli e Tani assecondano senza mai intervenire artificiosamente, lasciando piena libertà al protagonista, che sembra in continuo movimento, anche se lo vediamo seduto in una camera d’albergo o nella casa di Nilo; questo modo del tutto peculiare di relazionarsi al pubblico è il frutto di un lunghissimo lavoro su sé stesso, compiuto in tre diverse fasi. La prima, la separazione dalla famiglia e dalla Sicilia. Sono gli anni ’60 e Battiato, trasferitosi a Milano, inizia a fare il musicista senza grossi progetti da realizzare, ma solo per il gusto di poter suonare; firma brani orecchiabili e romantici, che ben si inseriscono nel panorama dell’epoca.

Poi negli anni ’70, la seconda fase, arriva l’innamoramento per la musica elettronica, colpo di fulmine scoccato con l’acquisto di un sintetizzatore VCS3; sono lavori così sperimentali, questi, che contribuiscono alla notorietà internazionale di Battiato, ma che scatenano il rifiuto dal parte del pubblico. “Li capivo, erano cose inaccettabili“, rivela Battiato senza alcun timore, che in maniera altrettanto cristallina racconta della gravissima crisi attraversata poco dopo. “Non riconoscevo le persone, salivo sul tram e mi chiedevo chi fosse tutta quella gente“. Ne esce attraverso la lettura dei mistici indiani e la costante sperimentazione di quel genere di pratiche. Nella terza e ultima fase la musica diventa finalmente un ponte per comunicare con gli altri. “Non ero adatto a esibirmi“, dice il compositore, eppure gli stadi sono affollati e i dischi sono in vetta alle classifiche di vendita. Si stabilisce cioè una connessione che va oltra la comprensione razionale. Ed è questa la relazione che Battiato cerca e che in qualche modo ‘pretende’ dagli spettatori di questo documentario, che certamente dovranno fare uno sforzo in più per seguire e comprendere profondamente le riflessioni effettuate dal cantautore, figura tra le più interessanti e affascinanti della nostra musica, artista innovativo che non ha mai cercato i favori della platea, ma che è stato ripagato quasi sempre con attenzione e massima partecipazione dal suo pubblico, felice di perdersi nell’incantesimo.

Francesca Fiorentino per Movieplayer.it Leggi