Grand Piano

Il trentaseienne regista spagnolo tenta in maniera goffa e involontariamente grottesca di rimodernare la suspense e i meccanismi perversi del cinema di Hitchcock confezionando un thriller kitschissimo pieno di scene scult e maldestramente surreale

Tom Selznick è un pianista di successo che per colpa di un attacco di fobia da palcoscenico ha deciso di fuggire per un periodo di tempo le luci dei riflettori. Durante la serata del suo ritorno in scena un misterioso messaggio scritto in rosso sul suo spartito lo getta nuovamente nel panico. “Suona una nota sbagliata e morirai” è il messaggio che un misterioso cecchino appostato nel teatro gli fa trovare sul pianoforte e gli continua a ripetere nell’auricolare. Terrorizzato dalle minacce dell’assassino e preoccupato per le sorti di sua moglie, celebre star del cinema presente in sala, Tom decide di assecondare le richieste del suo misterioso interlocutore telefonico e di concludere il concerto suonando La Cinquette, il complicatissimo pezzo inedito scritto dal suo mentore durante la cui esecuzione Tom decise di abbandonare il pianoforte.

L’idea geniale del pianista che deve seguire uno spartito difficilissimo senza poter mai sbagliare una nota crolla sotto i colpi del product placement e delle improbabili acrobazie registiche di Eugenio Mira, trentaseienne regista spagnolo che tenta in maniera goffa e involontariamente grottesca di rimodernare la suspense e i meccanismi perversi del cinema di Alfred Hitchcock confezionando un thriller kitschissimo pieno di scene scult, maldestramente surreale e mai avvincente, schiacciato da una sceneggiatura debole (scritta da Damien Chazelle, già autore della sceneggiatura di The Last Exorcism – Liberaci dal male) incapace dare spessore all’interpretazione di un Elijah Wood completamente fuori ruolo. Ispirandosi alla sequenza clou de L’uomo che sapeva troppo (con protagonista Doris Day), allo stile visivo di Brian De Palma e ai ritmi concitati di piccoli thriller come Speed e In linea con l’assassino, Chazelle e Mira confezionano un gigantesco spot di Blackberry che si prende decisamente troppo sul serio e rimane aggrappato ad una sceneggiatura spesso involontariamente comica da divenire fastidiosa. I virtuosismi di macchina e di scenografia insieme alla teatralità delle scene e al montaggio ansiogeno un po’ arruffone appaiono totalmente disfunzionali al racconto e la narrazione diventa un patchwork visivamente interessante di scene imbastito con un filo troppo sottile che cede sotto i ripetuti colpi di scena e le repentine piroette ‘orchestrate’ da Mira nella parte finale. Un vero peccato.

Luciana Morelli per Movieplayer.it Leggi