Blue Jasmine

Dopo il fallimento del suo precedente film-cartolina, Woody Allen dirige un'opera che ha l'acutezza e la sensibilità dei tempi migliori, affidandosi a dialoghi ottimamente scritti e a una notevole Cate Blachett.

La vita di Jasmine, ricca ed elegante donna newyorchese, è andata rapidamente in pezzi. Il marito Hal, rampante uomo d’affari, si è infatti rivelato per il truffatore che è sempre stato; arrestato, l’uomo si è suicidato in carcere, lasciando Jasmine al verde e senza notizie di un figlio che, per la vergogna, ha fatto perdere le sue tracce. In uno stato di estrema fragilità emotiva, la donna si trasferisce a San Francisco dalla sorella Ginger: questa possiede un piccolo appartamento, in cui presto inizierà a convivere con Chili, suo attuale compagno. Quest’ultimo, da poco subentrato al fallimento del precedente matrimonio di Ginger, viene da subito mal visto da Jasmine, che lo considera un “perdente”: più in generale, la donna dimostra di mal sopportare il nuovo contesto in cui si trova a vivere, così distante dalle sue abitudini di donna della upper class newyorchese. Divisa tra un’occupazione accettata suo malgrado, quella di segretaria in uno studio dentistico, e il velleitario progetto di studiare per diventare arredatrice, Jasmine sembra avere un’occasione di riscatto quando conosce Dwight, ambizioso diplomatico che subito mostra un interesse per il suo fare affascinante e raffinato. Ma Jasmine, incapace da sé stessa di accettare la sua nuova situazione, inizia a mentire a Dwight, nascondendo il suo passato recente e costruendosi una vita fittizia…

Il carattere altalenante e discontinuo della carriera recente di Woody Allen è ormai un dato assodato. Un dato che, a seconda ci si trovi di fronte ad opere che mostrano lo smalto dei tempi migliori (Basta che funzioni, Midnight in Paris) o a evidenti fallimenti (Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni, To Rome with Love) può apparire confortante o deprimente: Blue Jasmine appartiene alla prima categoria, e come tale non può che rassicurarci nella conferma che, malgrado i frequenti scivoloni, Woody ha ancora molto da dare al cinema. Una conferma che fa tirare un bel sospiro di sollievo, visto che il film-cartolina dedicato alla Capitale era probabilmente il peggiore della sua ormai più che quarantennale carriera: qui, basta dare uno sguardo alle prime sequenze per capire che siamo su tutt’altro registro, malgrado la presenza di un attore comune (Alec Baldwin) il cui talento viene, comunque, ben altrimenti utilizzato. La Jasmine di Cate Blanchett è donna fragile, compendio delle nevrosi di un quarantennio di personaggi, femminili e non, del regista: ma è, soprattutto, un prodotto di quell’alta borghesia americana, da sempre oggetto delle attenzioni di Allen, che l’ha fagocitata privandola di stimoli e ambizioni, rendendola cieca alle meschinità di suo marito e comodamente vuota di sostanza umana; vittima e carnefice insieme di un ambiente che troppo rapidamente le è crollato sotto i piedi. L’apparente schematismo dei contesti umani delineati dal film (alta borghesia/working class) non toglie nulla alla pregnanza dei suoi ritratti: subito mostrata dalla qualità di dialoghi che, in poche battute, descrivono con assoluta precisione i due mondi trattati.

Uno dei pregi del film sta indubbiamente nella sua intelligente struttura narrativa, giocata su un’alternanza di piani temporali che, lentamente, ci svelano i diversi aspetti del carattere della protagonista. In un lento dischiudersi del personaggio di fronte ai nostri occhi, scopriamo gradualmente il quadro dell’esistenza di Jasmine, e le motivazioni della sua montante nevrosi; con un ritratto che viene completato solo nei minuti finali, in cui emerge del tutto lo sguardo pungente e disincantato del regista. Non manca l’empatia, nel ritratto di Allen di un mondo che, pur in tutta la sua meschinità, il regista mostra di conoscere bene; persino il personaggio del truffatore Hal viene trattato con un certo grado di bonarietà, incarnazione dell’ingenuità colpevole di chi non ha mai saputo comportarsi altrimenti. Tuttavia, la lucidità dimostrata dall’occhio del regista fa in modo che non si sconfini né nel bozzetto vuoto e caricaturale, né in una manichea opposizione che elimini, dalla sua visuale, le zone d’ombra: la stessa Jasmine, cresciuta in un ambiente umile, è stata gradualmente modificata (quasi infettata, diremmo) dal contatto con un contesto sociale a lei estraneo; contatto che, quasi in un effetto domino, finisce per contaminare tutte le persone che stanno intorno alla donna, mettendone a rischio la stabilità emotiva e sentimentale. Nonostante lo sguardo del regista mostri simpatia per il fare schietto e semplice di Ginger (un’efficace Sally Hawkins) e del suo compagno Chili, il film mostra chiaramente che neanche questo ambiente è immune dalla fascinazione di quell’esistenza vacua e senza centro, caratterizzata dall’oblio dei sentimenti, che per tanto tempo ha tenuto prigioniera la protagonista.

Molto efficace anche nella resa dei personaggi di contorno (il Dwight di Peter Sarsgaard, il già citato Chili di Bobby Cannavale, solo per fare due esempi) Blue Jasmine ci restituisce così un Allen acuto, che gioca con i suoi personaggi con una leggerezza che nasconde un fondo amaro e cinico. Un progetto, questo, che evidentemente il regista sentiva maggiormente come suo, al netto del suo dichiarato (e discutibile) uso del cinema in funzione “terapeutica”, con l’impegno a dirigere un film all’anno. Una prolificità che ci piacerebbe vedere ridotta, in favore della qualità: ma, in subordine, ci possiamo anche accontentare di sapere che l’ormai ottantenne Woody dirigerà altri film come questo. Gli scivoloni, in fondo, sono un pegno da pagare accettabile.

Marco Minniti per Movieplayer.it Leggi