I sogni segreti di Walter Mitty

Alla sua quinta regia, Ben Stiller dirige un film con qualche squilibrio, narrativamente non perfetto, ma capace di emozionare genuinamente nella semplicità del suo approccio ai temi che tratta.

Di una nuova versione del racconto The Secret Life of Walter Mitty si parlava da tempo. Quasi un ventennio, per la precisione: fu nel 1994, infatti, che Samuel Goldwyn Jr. iniziò ad ipotizzare un remake di quel Sogni proibiti che suo padre Samuel Goldwyn aveva prodotto nel 1947, con Danny Kaye protagonista. Doveva essere, allora, Jim Carrey a vestire i panni del sognatore ad occhi aperti creato da James Thurber, apprezzato vignettista e umorista americano; e sarebbe stato senz’altro interessante osservare un Carrey ancora agli inizi della carriera, lontano dalla maturità artistica raggiunta successivamente, cimentarsi in un ruolo così diverso da quelli che, allora, erano i suoi abituali registri. Ben Stiller, proprio in quell’anno, esordiva alla regia col suo Giovani, carini e disoccupati; e sicuramente un’ipotetica, nuova versione della storia di Walter Mitty era ben lontana dai suoi pensieri. E’ divertente, a volte, osservare come la storia, ivi compresa quella del cinema, ci mostri corrispondenze di date, coincidenze che aprono (o addirittura anticipano, come in questo caso) collegamenti che si riveleranno poi significativi. Approdato, dopo le infinite traversie produttive, nelle mani (e nel volto) di Stiller, I sogni segreti di Walter Mitty si è rivelato forse la sua miglior regia dopo quell’esordio del 1994: non un pezzo di storia del cinema, probabilmente, e neanche un film esente da difetti, ma certamente un lavoro ricco, visivamente elaborato, capace di emozionare a dispetto di qualche squilibrio narrativo.

La sceneggiatura trae solo l’idea di base dal racconto di Thurber, e dalla sua prima incarnazione cinematografica diretta da Norman Z. McLeod. Il Walter Mitty di Stiller è un editor fotografico della rivista Life, che col suo omonimo letterario ha in comune la sua abitudine principale: quella di “incantarsi”, fermarsi all’improvviso ed estraniarsi dalla vita di tutti i giorni, per lanciarsi in una serie di incredibili sogni mentali. Ma Mitty è anche un uomo dei nostri tempi, che usa la Rete per comunicare e cerca di attrarre la ragazza dei suoi sogni (una collega a cui non ha nemmeno il coraggio di rivolgere la parola) attraverso il suo profilo su un social network. Una radicale ristrutturazione, tuttavia, si prospetta nella pubblicazione: Life, nella sua incarnazione cartacea, sta per chiudere i battenti e trasferirsi in rete, con le inevitabili ricadute su molti posti di lavoro. Per l’ultimo numero, la nuova dirigenza ha richiesto comunque una copertina speciale: uno scatto di Sean O’Connell, leggendario fotografo del mondo naturale, personaggio sfuggente che negli anni ha stabilito un rapporto privilegiato con la rivista, e con Walter in particolare. Disgraziatamente, tuttavia, lo scatto inviato da O’Connell sembra essere andato perduto: per evitare di essere a sua volta licenziato, Mitty dovrà mettersi alla ricerca del fotografo, uomo privo di fissa dimora, senza cellulare né recapito e-mail. La ricerca porterà Walter tra la Groenlandia, l’Islanda e le vette dell’Himalaya, facendogli vivere avventure che superano anche i più arditi dei suoi sogni.

Non è un film narrativamente perfetto, I sogni segreti di Walter Mitty. La sceneggiatura scritta da Steve Conrad appare troppo palesemente spezzata in due: nella prima metà, il Mitty imbambolato e sognatore, timido e impacciato con l’amore segreto Kristen Wiig, “bullato” dal nuovo capo che ha il volto (sufficientemente insopportabile) di Adam Scott; nella seconda, l’uomo determinato che ha ritrovato l’attitudine della sua infanzia, pronto a tutto per una ricerca che, prima che un disperato tentativo di salvare il suo posto di lavoro, diventa una sfida a sé stesso e alle sue capacità. C’è una cesura troppo netta tra le due metà, un’evoluzione narrativa (e del personaggio) sicuramente troppo rapida. Tutto vero. Eppure, la storia (ri)creata da Stiller, oltre a divertire, emoziona: e questo, nonostante tendiamo a dimenticarcelo troppo spesso, è ciò che principalmente, al cinema, conta. Merito di un comparto visivo di prima fattura, che porta il protagonista in location mozzafiato, dalle sconfinate lande rocciose della Groenlandia al Mare del Nord, fino alle vette innevate dell’Himalaya; dopo averlo fatto passare per avventure immaginarie improntate al grottesco e alla stilizzazione iperrealistica, tra le quali spicca un irresistibile inseguimento cittadino, con un pupazzo di gomma come oggetto conteso. Ma c’è dell’altro, al di là della splendida fotografia di Stuart Dryburgh e dell’indubbia cura nelle scenografie (opera di Jeff Mann, production designer di fiducia del regista). Proviamo a capire questo “altro”.

Al netto di tutta la retorica possibile, la storia di un uomo che ritrova se stesso, attraverso quell’allontanamento (fisico) da un ambiente opprimente, che prima poteva restare confinato solo alla dimensione mentale, funziona sullo schermo egregiamente. C’è una semplicità, nell’approccio al tema da parte dell’attore/regista, persino un’ingenuità di fondo, nello schematismo (innegabile) dello svolgimento, che sono esse stesse motivo di emozione. La semplicità, al cinema, va in molti casi rivalutata: ora facciamo un paragone azzardato, in cui non tutti ci seguiranno. Ma cosa ne sarebbe di una cinematografia che in molti amiamo, come quella di Hong Kong, se le togliessimo quel suo approccio ingenuo, spesso favolistico, tutto teso a catturare e valorizzare gli archetipi? Stiller, che ne sia consapevole o no, fa un’operazione simile a quelle di Stephen Chow in opere come Kung Fusion o CJ7 – Creatura extraterrestre: risale agli archetipi, ai sogni ad occhi aperti dell’infanzia, al mondo in bianco e nero e all’avversione semplice e pura alla vita adulta, al contatto salvifico e rigenerante con la natura. Lo fa, il nostro, senza paura di “sporcarsi le mani” con la tecnologia, facendo largo uso del digitale, ponendo titoli di testa, pensieri e annotazioni del protagonista in sovraimpressione su palazzi, cieli, montagne. Lo fa con una recitazione misurata, in cui l’attitudine comica (e alle sue proverbiali “facce”) viene tenuta costantemente a bada, e quella più improntata ai registri emozionali è libera di venir fuori. Lo fa recuperando il volto di una Shirley MacLaine che, nel ruolo della madre del protagonista, riesce ad emozionare non appena appare sullo schermo; e quello di uno Sean Penn che sarà stato felicissimo di tornare, sia pure per così poco, Into the Wild. Da un film natalizio, a cui si chiedono “buoni sentimenti” (e questi sono “buoni” davvero) cosa si può chiedere di più?

Marco Minniti per Movieplayer.it Leggi