No Man’s Land

L'opera di Hao ci accompagna in un turbinante e catastrofico vortice di eventi in cui i carnefici si distinguono tutti per stupidità

Pan Xiao è un giovane e scaltro avvocato che si occupa della difesa di un cacciatore di frodo, un losco figuro che cattura falchi e li rivende a danarosi acquirenti; pur sapendo della colpevolezza del suo assistito, l’avvocato ne ottiene la scarcerazione. Ricevuta dal cliente una macchina rossa come saldo della sua parcella, si mette in marcia nel deserto del Gobi per tornare a casa. Una banale lite con due camionisti, dovuta ad un sorpasso azzardato, dà il via ad una catena di imprevisti sempre più gravi che lo porteranno a scoprire un lato oscuro del suo carattere. Sul suo cammino incrocia altre figure particolari, come i titolari di un’area di servizio in cui gli avventori vengono tiranneggiati, una giovane donna che gli chiede di essere liberata dalla reclusione cui è stata sottoposta, il braccio destro che cacciatore che ha fatto scarcerare e, ultimo ma non ultimo, lo stesso uomo, desideroso di ritrovare la sua preda.

Rapacità
Ai registi cinesi in concorso al 64.mo Festival di Berlino piace giocare coi generi; se in Black Coal, Thin Ice, Diao Yi’nan si è confrontato con il noir, Ning Hao si è cimentato con una rielaborazione personale del western, declinando questa ‘categoria’ cinematografica del tutto peculiare secondo suggestioni orientali. Ciò che colpisce in No man’s land è la capacità del regista di non far mai abbassare la tensione grazie ad un montaggio molto efficace che si modula armoniosamente con i tempi del racconto. Il film parte infatti con una storyline ben precisa, l’analisi delle conseguenze di un processo fortunato per la parte in causa, e diventa qualcosa di diverso, ovvero uno spietato apologo sulla grettezza umana. Paesaggi desertici, strade polverose, di tanto in tanto battute da qualche macchina, ci riportano a epoche e atmosfere quasi preistoriche, quando gli uomini combattevano per ogni cosa, cercando di prevalere sull’altro.

Una serie di sfortunati eventi
Al di là di questa riflessione semplicistica sulla ferinità intrinseca dell’essere umano – forse sarebbe meglio parlare di incapacità di riconoscere nell’altro un essere umano – l’opera di Hao ci accompagna in un turbinante e catastrofico vortice di eventi in cui i carnefici si distinguono tutti per stupidità; un’ottusità che colpisce anche il protagonista, interpretato da Xu Zheng, avvocato dall’eloquio raffinato, molto furbo e ambizioso, che non riesce a mettere a frutto le sue qualità in un contesto così particolare. E’ destinato a soccombere, insomma, al cospetto di chi da sempre è abituato a confrontarsi con gli altri con l’attitudine del cacciatore.

C’era una volta Leone
Si è parlato di omaggio a Sergio Leone e già dalla bellissima sequenza iniziale della caccia al falco, possiamo notare quanto il modello sia presente nel film in questione, nell’attenzione amplificata ad ogni singolo dettaglio, come gli stivali del cacciatore, ad esempio. Evitiamo di lanciarci in paragoni che difficilmente possono sussistere, anche perché, a differenza del cineasta capitolino, propenso a lasciar parlare solo le immagini, Hao sente il bisogno di commentare la storia, che ci viene raccontata attraverso la voce fuori campo dello stesso protagonista. Un tentativo, questo, di ricondurre l’insensatezza di ciò che vediamo ad una spiegazione plausibile, logica. Ma in un mondo in cui regna il mors tua vita mea, non c’è spazio per alcuna spiegazione.

Francesca Fiorentino per Movieplayer.it Leggi