Allacciate le cinture

Nonostante la discontinuità della narrazione, la sceneggiatura scritta a quattro mani con Gianni Romoli consegna alcuni ritratti umani in cui sarcasmo, ironia e senso della realtà compongono una forza tutta al femminile.

Ci sono dei registi riconoscibili fin dalla prima inquadratura. O meglio, decodificabile dai primi minuti è la struttura narrativa e tutti quegli elementi che la definiscono. Ferzan Ozpetek è senza dubbio uno di questi considerando il fatto che, dal successo inaspettato de Le Fate Ignoranti in poi, è andato amplificando e ripetendo quelle formule che ormai definiscono fin troppo il suo cinema. Così, già dai titoli di testa, ci si aspetta senza dubbio alcuno la convivialità della tavola, la presenza del nucleo famigliare, tradizionale o alternativo che sia, l’amico gay e l’utilizzo di un tappeto musicale invadente il cui scopo è creare enfasi. Perché il regista turco, nonostante in passato abbia dimostrato di saper miscelare atmosfere leggere con momenti d’intensità emotiva, non smette di dimostrarsi un fan accanito del “melodramma” contemporaneo. E se ci aveva tratto in “inganno” con i fantasmi di Magnifica presenza e l’ingenuo stupore di Elio Germano di fronte al talento d’altri tempi di questi artisti prigionieri del loro passato, con Allacciate le cinture torna senza esitazione ad abitare un terreno conosciuto e percorso più volte come quello della passione, dell’amicizia, dei tormenti di coppia e del confronto con la minaccia della morte. Il tutto narrato ancora una volta lungo quelle vie leccesi che avevano già ospitato le sue Mine vaganti. Però, mixando tutti questi livelli emotivi, Ozpetek consegna al pubblico una vicenda altalenante dove un’enfasi spesso esagerata e disturbante nella rappresentazione della malattia cede il passo con ritrosia ad un’ironia capace di costruire dei momenti di preziosa e rara bellezza. Il colpo di scena non è certo uno degli scopi perseguiti dal regista turco, quindi non crea nessun problema identificare dai primi sguardi tra la raffinata Elena e l’essenziale Antonio il nascere di una passione. Peccato, però, che, dopo questa scintilla, Ozpetek affidi a particolari spesso superficiali e poco incisivi il compito di raccontare l’incontro tra due anime cosi diverse, il loro evolversi attraverso i successivi tredici anni e il confronto con la malattia di lei. E non bastano certo frequenti primi piani non sempre sostenuti adeguatamente dai protagonisti o giochi di montaggi temporali per rendere l’insieme armonioso e naturalmente emozionante.

La malattia al cinema
Il tema del dolore e del confronto con la malattia non è una tematica affrontata dai registi a cuor leggero. La discussione si anima sempre intorno a quanto sia opportuno mostrare o raccontare prima di scadere nel patetico o nel voyeuristico. Ma, soprattutto, una vera sfida è riuscire a gestire la materia per creare emozione senza per questo toccare il pietismo o l’esibizionismo. Film come Le Invasioni Barbariche o 50 e 50 sono riusciti nell’intento, ad esempio, affidandosi quasi esclusivamente alla personalità dei loro personaggi e trattando la malattia come un evento con cui scendere inevitabilmente a compromessi senza trasformarlo nel vero protagonista. Un errore, questo, che Ozpetek commette accompagnando la sua Elena attraverso le prime esperienze della chemio e mostrando al pubblico sale e particolari di liquidi iniettati non riuscendo proprio a rinunciare alla drammatizzazione dell’immagine. Una scelta che fortunatamente abbandona a metà della seconda parte, lasciando che il cancro, oltre ad aggredire il corpo, inizi a minare anche il fragile equilibrio della coppia. A dividerli è la consapevolezza dell’inadeguatezza e dall’altra la consapevolezza di una lotta solitaria.

La splendida forza delle donne
Nonostante la discontinuità della narrazione, la sceneggiatura scritta a quattro mani con Gianni Romoli consegna alcuni ritratti umani in cui sarcasmo, ironia e senso della realtà compongono una forza tutta al femminile. In questo caso non ci sono sbavature o eccessi. Ogni donna si muove con grazia, seguendo il ritmo imposto dalla propria natura e dando forma ad un coraggio che non sa di eroismo ma di consapevolezza. Per questo motivo Elena, con la giovane dignità di Kasia Smutniak, racconta la sua disavventura con un tono sempre misurato, mentre alla madre Carla Signoris e alla “zia” con crisi d’identità Elena Sofia Ricci spetta il compito di applicare un’ironia dissacrante e pragmatica il cui scopo è la sopravvivenza a tutti i costi. Accanto a loro, come alla carnalità dell’amante parrucchiera Luisa Ranieri, spicca però la presenza di Paola Minaccioni. Per lei che, oltre ad essere una grande caratterista, è soprattutto un’amica, il regista ha costruito un personaggio in cui dolore e umorismo si sovrappongono costantemente per celare la realtà di una profonda solitudine durante il confronto con la morte. In questo modo Egle, la cui parola d’ordine è “sobrietà” e, per sua ammissione, è dotata di un radar infallibile per i gay, rappresenta l’immagine del rimpianto e del disperato desiderio di sopravvivere nonostante non ci sia più tempo.

Tiziana Morganti per Movieplayer.it Leggi