The Raid 2: Berandal

Seguito di "The Raid", il nuovo film del regista gallese naturalizzato indonesiano Gareth Evans è una mirabile girandola di combattimenti e inseguimenti al fulmicotone, riuscendo quasi a far dimenticare una parte iniziale troppo dialogata

L’action orientale riesce quasi ogni anno a rinnovarsi e reinventarsi, ora a Hong Kong ora in Thailandia ora altrove. Questo è il momento dell’Indonesia che, grazie al gallese Gareth Evans (da anni di stanza a Jakarta), ha dato nuova linfa al genere introducendo al cinema l’arte marziale locale, il pencak-silat. Massimo rappresentante di questa disciplina è Iko Uwais, protagonista di tutti i film di Evans: Merantau, The Raid e The Raid 2: Berandal, quest’ultimo presentato in anteprima europea al Far East 2014. Dopo l’eclatante successo di The Raid, presentato nel 2011 a Toronto e poi al Festival di Torino, sembrava difficile fare di meglio. E, in effetti, va detto che il capitolo originale mantiene una forza e una compattezza cui il sequel sembra non poter aspirare.

Dalle quattro mura alla strada
La più evidente novità rispetto al precedente film, viene in The Raid 2 dalla varietà delle location in cui si svolgono le scene d’azione. Se The Raid era in pratica completamente ambientato all’interno di un palazzo in cui Iko Uwais, salendo un piano dopo l’altro, doveva salvare suo fratello, in questo nuovo capitolo si passa da un carcere alle strade di Jakarta, dalla metropolitana alle varie sedi delle diverse gang impegnate a sfidarsi l’una con l’altra. Ma le dinamiche da guerra di clan, sul cui spunto parte in effetti The Raid 2, vengono scompaginate proprio da Uwais che, nei panni di un poliziotto infiltrato, combatte contro tutti e tutto, fin quasi a rischiare di dimenticare il suo obiettivo iniziale e uccidendo chiunque provi a ostacolarlo (gli stessi poliziotti che incrociano la sua strada finiscono per soccombere).

Troppe chiacchiere
Le diverse location mostrate in The Raid 2 valgono del resto come indizio rivelatore di un eccessivo barocchismo del nuovo film di Evans rispetto al suo precedente lavoro. Se nulla vi è da dire sulla spettacolarità delle singole scene di combattimento, molto al contrario va eccepito sulle modalità con cui queste vengono preparate. In particolare nella prima parte del film si assiste a una sequela di estenuanti dialoghi tra il personaggio di Iko Uwais e il suo superiore, da cui riceve una serie di indicazioni sulla complessa cosmogonia di cattivi che l’eroe andrà ad incontrare. Spiegazioni e dialoghi che si era riusciti quasi del tutto ad evitare nel primo capitolo della saga, regalando una secchezza e un realismo qui purtroppo attenuato. La stessa amicizia tra il protagonista e il figlio di uno dei capi mafiosi risulta inoltre zoppicante e derivativa (vi sono mille altri esempi similari costruiti molto meglio, a partire da La promessa dell’assassino di David Cronenberg); d’altronde, come è facilmente intuibile, lo psicologismo o la relazione tra personaggi non è al centro degli interessi di Evans. E dunque probabilmente ha sbagliato in The Raid 2 a seguire, sia pur timidamente, questa strada.

Sangue, violenza e stillicidi
Se la lotta a mani nude resta lo strumento preferito di offesa, in The Raid 2 vi è però una maggiore varietà anche nell’uso delle armi. E si tratta di una soluzione che, al contrario di quanto accade con i dialoghi, invece arricchisce la spettacolarità del film. Non a caso, una delle sequenze più riuscite della pellicola è rappresentata dalla lunga sequela di sparatorie tra una macchina e l’altra lungo le strade di Jakarta e in cui, tra l’altro, il protagonista non è neppure Iko Uwais, ma un improvvisato collega di sventura. Ciò significa che l’interesse della saga di The Raid non va trovata solamente nella novità del pencak-silat, quanto in una notevole competenza registica nelle scene action, dal montaggio alla sceneggiatura interna ai singoli combattimenti. E di non minore impatto è anche il realismo con cui viene rappresentata la violenza, eccessiva, straripante e sempre supportata da una non facile coerenza, come ad esempio in una delle sequenze più belle del film, quella della lotta nel fango in cui l’agilità di chi è in scena viene messa a dura prova da melma e pioggia battente. Una scena che ci ricorda come ogni genere di effetto speciale perderà sempre il confronto con la reale fatica dell’attore impegnato a sfidare i suoi limiti fisici.

Alessandro Aniballi per Movieplayer.it Leggi