Venezia 71: delude il “The Cut” di Fatih Akin ma è il film che gli armeni aspettavano

Presentato oggi in concorso alla 71° Mostra del cinema di Venezia, il nuovo film del regista de "La sposa turca" e "Soul Kitchen", un melodramma sullo sterminio armeno

Venezia, 31 agosto 2014 – Ha deluso molti il nuovo atteso film di Fatih Akin, presentato oggi in concorso alla 71° Mostra del cinema di Venezia. Dopo aver firmato opere come La sposa turca, Ai confini del paradiso e Soul Kitchen il regista tedesco di origine turca ha presentato The Cut, un melodramma sullo sterminio armeno. Tiepidamente accolto alla proiezione stampa, il film racconta l’epopea di un uomo brutalmente separato dalla sua famiglia che, sopravvissuto all’orrore del genocidio armeno, viene a sapere dopo anni che le sue due figlie sono ancora vive. L’uomo decide così di ritrovarle e si mette sulle loro tracce. La ricerca lo porterà dai deserti della Mesopotamia e l’Avana alle desolate praterie del North Dakota. Protagonista del film è Tahar Rahim (Il profeta), che recita muto per la maggior parte del film.

The Cut conclude la trilogia su Amore, Morte e Diavolo di Fatih Akin. E’ un film epico, un dramma, un’avventura e un western tutti insieme, ma sconta una scrittura meccanica e scontata, segnando decisamente un passo indietro nella filmografia del talentuoso regista. Per Akin però è un film molto personale: “Nel tema esplora la mia coscienza – dichiara – e nella forma esprime la mia passione per il mezzo cinematografico”.

“Mi ci sono voluti sette-otto anni per prepararmi emotivamente al film. Qualcuno mi ha minacciato, ma sono cose a cui basta non dare troppo peso. Si tratta di piccole reazioni che non hanno importanza”, racconta Akin, di nuovo in concorso a Venezia cinque anni dopo Soul Kitchen, con un film scritto insieme a Mardik Martin, storico sceneggiatore autore, tra gli altri, di New York, New York e Toro scatenato: “Quella di The Cut è una storia vera, che ci crediate o no”, afferma Martin.

Il film riporta a galla la tragedia del genocidio armeno, troppe volte negata e taciuta: “C’erano alcune idee che volevo condividere con il pubblico, in particolare in Turchia. – racconta Akin – Volevo ci fosse empatia con il protagonista, o la storia. Per farlo era necessario ampliare il confine dell’identificazione, in modo di arrivare anche a coloro che negano il genocidio armeno, così da potersi identificare con il protagonista”.
Il regista spiega anche il percorso “religioso” di Nazaret: “Prima credeva a determinati dogmi, ad una religione. Poi nella sua vita accade una tragedia, le cose lo portano a perdere la fede. Durante tutto il film il protagonista scopre la spiritualità, la speranza. Si libera dei dogmi e arriva all’essenziale, alla spiritualità: questo è il viaggio personale che ho compiuto anche io rispetto alla religione”.

Nel cast del film, anche l’attore armeno Simon Abkarian: “Il film di Fatih era quello che gli armeni stavano aspettando. La prima generazione ha dovuto sopravvivere, la seconda vivere, la terza reagire. Un film non basta, dobbiamo farne di più, ma c’è una lobby turca che quando può interferire con film come questo non si tira indietro”.
Sulla discussa scelta di far parlare i personaggi armeni del film in inglese, Akin spiega: “L’utilizzo dell’inglese non è per questioni di marketing. Voglio aver controllo anche sui dialoghi, non parlo l’armeno. Anche Bertolucci ha girato L’ultimo imperatore in inglese, stessa cosa ha fatto Polanski con Il pianista: la cosa essenziale è questa, quando dirigo i miei attori non voglio essere interrotto ogni cinque minuti da un coach che vada lì a riprenderli perché l’accento non va bene”.

 

MARILENA VINCI