Ferrario racconta l’era d’oro dell’industrializzazione

Quando acciaio voleva dire vita, quando c'era un'idea di progresso completamente diversa. Ecco la nostra intervista a Davide Ferrario, regista de "La zuppa del demonio", fuori concorso al Lido.
Intervista a Davide Ferrario a cura di Giovanna Barreca

“Il progresso è una cosa buona e il film è stato un ritorno a quello che era considerata una cosa buona. Un sogno che diventa incubo ma nel momento in cui lo sogni è meraviglioso” dichiara Davide Ferrario, presentando Fuori concorso alla 71esima Mostra del cinema di Venezia La zuppa del demonio, un film di montaggio realizzato partendo da un’idea di Sergio Toffetti e attingendo a diversi archivi, primo tra tutti quello di Ivrea dove Olivetti creò il suo primo impero con le macchina da scrivere. L’idea era quella di analizzare il tema dell’industrializzazione oggi, per riuscire a leggere meglio il presente e il nostro rapporto con le macchine, l’acciaio, una volta considerato vita perchè in esso era racchiusa un’idea di progresso. E come diceva Marinetti: “Il progresso ha sempre ragione”.
Quando la carrellata all’interno di una fabbrica dismessa di Torino (oggi centro culturale) termina su uno schermo che proietta il film L’uscita dalle officine dei fratelli Lumière (primo film della storia del cinema e primo filmato industriale) del 1895 e poi – in un sapiente gioco di raccordi – Ferrario sceglie un’immagine simile degli operai Fiat del 1911, la sala inizia a vivere le prime emozioni di un flusso di immagini, di storie, di parole pensate e pronunciate dalla viva voce di grandi scrittori e intellettuali del Novecento. Immagini e un controcanto lettterario ad esse. Un flusso che dura 80 minuti tra fotogrammi che spesso turbano la percezione che oggi abbiamo di quel perido; per uno spettatore di oggi vedere un ulivo centenario sdradicato per far posto ad un’industria (nel caso specifico l’Ilva di Taranto), vedere operai felici anche se condannati a gesti repetitivi e alienanti per ore e ore, un campo di calcio che deve sparire per far posto alle trivelle per l’estrazioe del petrolio, una chiatta in mezzo al mare pronta a buttare carcasse di automobili in mare per creare una grotta marina e ripopolare la fauna ittica della zona. Una volta era un riconoscersi in un’idea di lavoro e di vita condivisa, un’appartenere, come ricordano le parole di Ermanno Olmi. E il miracolo dell’immagine cinematografica restituisce le macchine più orribili (come quello delle fabbriche delle centrali atomiche, quelle dell’Ilva) con una decodifica che le rende familiari: sono parte della comunità italica che su di esse ha lavorato alacremente e a volte è morto.
Film intenso sulla condizione operaia, sulla condizione umana, sulla possibilità di vita e quella di vite non possibili in quella realtà, nell’epoca del fare a tutti i costi perchè così era giusto.
La Zuppa del demonio sarà in sala dall’11 settembre per Microcinema.

giovanna barreca