Insidious 3

Più che il regista di punta del nuovo horror americano, James Wan ne è ormai diventato un marchio inconfondibile. L’originale mash-up tematico, la perfetta padronanza dei trucchi del mestiere e – perché no? – il bello stile hanno indubbiamente fatto scuola aprendo una stagione assai feconda per il filone, con prodotti capaci di centuplicare i guadagni al netto di costi irrisori.

Un cinema però che mostra il suo volto più impresentabile in Insidious 3, terzo atto della saga creata da Wan, qui “solo”in veste di produttore con regia affidata al sodale Leigh Whannell. Anche Whannell conosce i trucchi e le tecniche che fanno sobbalzare dalla poltrona; l’universo mitico/figurativo di riferimento è tale e quale poi a quello del suo mentore, contraddistinto da uno smaccato sincretismo culturale tra Oriente e Occidente, dalla fusione tra ghost-story nipponica e horror demoniaco modello Esorcista.

Eppure Whannell non è Wan. Gli manca quella sensibilità tipicamente medianica in Wan di “sentire” il film, conoscerne quell’ Altrove segreto – trattasi di un’intuizione di regia, di un dettaglio drammaturgico, di uno snodo di sceneggiatura inatteso –  da cui attingere come dall’ignoto pozzo della paura.

Senza questa qualità, che è innata, personale e non trasmissibile, diventa un cinema terribilmente vuoto. L’Altrove da cui provengono le entità – né fantasmi né demoni, ma una via di mezzo – torna ad essere cliché, “luogo comune” da film di babau. E le tecniche che pungono il cuore si rivelano trucchetti, il risultato di un uso pesante e scorretto del sonoro e del montaggio, di rumori bruschi e apparizioni improvvise.

Oltre questo, nient’altro. Non l’angoscia né l’inquietudine, ma solo qualche spavento mollato qua e là come uno schiaffo. La trama del resto è una cornice: Insidious 3 – di fatto un prequel – non è una storia di perdita e di riconciliazione dietro al paravento dell’horror, semmai il contrario. All’adolescente che, nel tentativo di mettersi in contatto con la defunta madre, si ritrova stalkerata da una maligna presenza, non crediamo mai. Se non come pretesto per sfoderare i colpetti bassi di cui sopra.

Nulla di strano dunque che il film, non prendendosi mai veramente sul serio, scivoli quasi naturalmente nel ridicolo, certificato dalla comparsa di due improbabili ghostbusters e da una involontaria parodia della sensitiva-simbolo della saga, Elise Rainier. Per non dire della totale scemenza di alcuni personaggi di contorno (il fratello, l’amica, il vicino), di cui sfugge l’utilità nell’economia del racconto.

In definitiva un prodotto come tanti, per chi cerca brividi a buon mercato.

Gianluca Arnone per cinematografo.it