Il piccolo principe

Il piccolo principe di Mark Osborne è la terza trasposizione cinematografica del romanzo di Antoine de Saint-Exupéry dopo quella semisconosciuta del lituano Arunas Zebriunas (1967) e l’altra assai deludente e in chiave musical di Stanley Donan (1971). Prodotta dalla Francia con un budget mostruoso (80 milioni di dollari), questa è anche la sua prima versione animata, una scelta che sembra orientata a un target di soli bambini.

In effetti la storia che Mark Osborne e Bob Persichetti hanno tratto dal libro è un tentativo di aggiornare la trama rendendola più acconcia alla moderna narrativa per l’infanzia di scuola DreamWorks (da cui proviene d’altra parte Osborne: suo era Kung Fu Panda). Intenzione  per alcuni aspetti lodevole, risultato che invece lascia molto a desiderare.

A questo Piccolo principe 2.0 manca quasi del tutto la magia dell’originale: se il romanzo era un capolavoro di “complessa” semplicità, con quel tono trasognato, la dimensione astratta e una sovrastruttura favolistica dentro cui celava un nucleo filosofico profondo, aperto a molteplici letture, il film animato opera un doppio tradimento, formale e contenutistico, che ne sacrifica parte della ricchezza testuale e semantica.

Innanzitutto l’ambientazione in un ipotetico “futuro prossimo”, àncora quella storia senza tempo a un hic et nunc preciso, in una città di una società capitalistica avanzata, dove il mito dell’efficienza e dello sviluppo è diventato realtà. Al prezzo però dell’umano, superato dall’automazione dei suoi processi psichici e vitali in funzione di un miglioramento socioeconomico continuo, prevedibile e determinabile in ogni sua tappa. Una variazione sul tema “liberismo e destino totalitario”, cui si è cimentata in passato tanta sci-fi. Ovviamente la vulgata per bambini del Piccolo principe non può essere altrettanto minacciosa, ma la sostanza resta quella di una lettura sociopolitica piuttosto smaccata. A ciò aggiungendo anche la centralità dell’elemento femminile che il romanzo di “soli uomini” non aveva.

La protagonista, chiamata genericamente “la bambina”, è vittima di una “madre” che ha disposto per lei un dettagliato crono-programma per diventare un adulto di successo: su una grande lavagna a muro la genitrice ha segnato ogni momento della giornata e il modo in cui dovrà essere ottimizzato al fine di poter eccellere nella prestigiosissima istituzione scolastica della città. La bambina, più rassegnata che convinta, si dà da fare per compiacere la madre. D’altra parte è lei il suo unico referente affettivo. Altra annotazione importante è in effetti l’assenza del padre: si intuisce che l’uomo ha abbandonato la famiglia, preso tutto dal suo lavoro. Non si vede mai ma in compenso ogni anno, nel giorno del compleanno della figlia, le fa recapitare un regalo, sempre lo stesso: una palla di vetro contenente il modellino di una metropoli.

La scoperta del vicino, un vecchio aviatore che vive in una casa da fiaba, piena di chincaglierie curiose e oggetti ormai “inutili”, cambierà il suo destino proprio perché le fornirà un paradigma educativo alternativo: l’insegnamento guarda al passato, lo strumento è il gioco, il fine è preservare il “fanciullino dentro di lei” perché, le dice, “il mondo è diventato troppo adulto”. Il libro sul quale dovrà cimentarsi la bambina è quello che l’aviatore stesso ha scritto e illustrato, ispirato a un incontro avvenuto anni prima nel deserto del Sahara. E qui racconta la storia del “piccolo principe”, perché l’aviatore altri non è se non Antoine de Saint-Exupéry, che il film onora riconoscendo a lui e al suo libro un magistero imprescindibile nella trasmissione di un sapere umanistico.

Le note liete però finiscono qui e la cornice finisce per occludere il quadro. La favola, così attualizzata, perde un po’ del mistero e della magia che la rendono ancora oggi un bestseller universale. Le suggestive figure allegoriche del Piccolo principe – la rosa, il serpente, il pozzo, ecc…- vengono sclerotizzate e appiattite sulla superficie testuale del film, più banalmente manichea. Senza peraltro che ciò comporti un vero e proprio superamento del modello sociale preso di mira, piuttosto un aggiustamento, una recupero della memoria e del sentimento che lo invalidi e perfezioni.

Ma è sul piano visivo che il confronto è impietoso: l’algida esattezza del digitale nulla può contro il passo a uno che anima il disegno originale di Saint-Exupéry, così come viene mostrato in un lungo flashback. Quel tratto così ingenuo, imperfetto, eppure autentico e poetico, unito alla dimensione della nostalgia (che è fare esperienza di una perduta innocenza), scioglie davvero il cuore e aumenta i rimpianti per un’operazione che, con un po’ di coraggio in più, avrebbe potuto essere meravigliosamente “fedele” all’originale.

Gianluca Arnone per cinematografo.it