Parola al cinema

15/01/10 - La necessità dei remake americani di film europei piuttosto recenti prima o poi dovrà...

“Brothers”: tripudio di convenzioni da melodramma americano con pretestuosi profumi di Europa

(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)

parola-al-cinema_def15/01/10 – La necessità dei remake americani di film europei piuttosto recenti prima o poi dovrà essere spiegata dagli autori statunitensi al mondo intero. Non se ne capisce davvero la ragione, la profonda motivazione, se non, forse, qualche interesse di cassetta (ma perché poi? quale appeal può suscitare nel pubblico americano il remake di un film ai più sconosciuto in America?). O probabilmente un film nato su idea europea si vende meglio presso le giurie dei premi più tradizionali, e infatti “Brothers” di Jim Sheridan ha ottenuto qualche candidatura ai Golden Globes. Nessuna spiegazione, tuttavia, pare convincente. Oltretutto, se la storia “rubata” ad altri autori è il tripudio della convenzione narrativa, ci si potrebbe forse scomodare un po’ meno a definire remake un film come “Brothers”, che, se di remake si tratta, rischia di trasformarsi in rifacimento del genere melodramma nella sua interezza. Un remake della storia del cinema, tanto generico e risaputo da poter essere spacciato per originale, perché nessun altro autore potrebbe (o magari vorrebbe) rivendicarne la paternità violata. Al di là di facili ironie, deve tirare davvero aria pesante per la creatività narrativa americana al cinema se si arriva a saccheggiare un’autrice convenzionale e sopravvalutata come la danese Susanne Bier, assurta inspiegabilmente alla gloria internazionale in virtù di una sequela di saghe familiari che spesso paiono puntate extralusso di Dynasty. Dalla sua parte la Bier possiede la scaltrezza di riverniciare tali convenzioni narrative con pretestuosi psicologismi e gusto visivo Dogma, ma alla fine le sue opere, interminabili e indigeste, si rivelano solo dei compiaciuti polpettoni.

“Brothers” è il rifacimento di un suo film del 2004, “Non desiderare la donna d’altri”, e Jim Sheridan ne raccoglie l’eredità per inzuppare la storia, già satura di retorica, in tutte le retoriche possibili del melodramma brothersamericano. Melodramma, sia chiaro, inteso nel suo canone moderno, che prevede semitoni e sordine sparse ovunque, e colpi ben assestati di scene madri al momento giusto. Il problema fondamentale del lavoro di Sheridan è l’evidente poca fiducia nella stessa storia. I rapporti tra i personaggi sono narrati in modo piano, quotidiano, senza grandi impennate e cercando momenti di dolore e tenerezza autentici. Ma l’assemblaggio dei blocchi narrativi è meccanico e prevedibile, le psicologie banali, basate su elementari dispositivi di azione-reazione che riducono i personaggi a esseri umani “binari”. Sto bene-sto male, sono affidabile-sono inaffidabile, ti amo-ti odio… Inoltre, Sheridan getta nella zuppa davvero un po’ di tutto. In meno di due ore l’autore (e il suo sceneggiatore, il pur bravo David Benioff) attraversa le convenzioni del melodramma in tutte le sue possibili variazioni. La passione amorosa che si scontra con i legami familiari, il senso di colpa, la redenzione di una pecora nera, il crollo di un fratello esemplare, il melodramma militare con denuncia civile, la retorica dell’educazione militare, la famiglia di stampo guerrafondaio che istiga il figlio a servire la patria e relative recriminazioni. Tutto frullato senza che si palesi mai il coraggio di una vera scelta narrativa. Cosicché talvolta il film pare guardare con rispetto alla carriera militare, e subito dopo si riconverte in film di denuncia contro le violenze della guerra (intollerabilmente fasulla, ad esempio, la chiusura sul finale in voce-off, che sembra voler ribaltare forzosamente il contenuto del film).

Sheridan, sia chiaro, non crede per un secondo a nulla di ciò che narra. Si limita a impaginare, sequenza dopo sequenza, senza sorprese né scossoni. Di suo, sembra metterci soltanto un suo cliché ricorrente (v. “In America”, altro suo discutibile drammone), altamente uggioso e a sua volta pedantemente melodrammatico, ossia il duo di saggissime bambine-figlie che, nemmeno compiuti 10 anni, mostrano una consapevolezza della vita da settantenni. Per non parlare poi degli sbandamenti narrativi sul finale, con l’intervento della polizia proprio quando si stanno per sciogliere i nodi del dramma, tanto per ritardare meccanicamente l’azione e allungare il brodo per un altro quarto d’ora. E che dire, infine, di tutti i rapporti tra i personaggi, intricatissimi, compiaciuti, costruiti su un fitto e fastidioso dialogato artefatto, rapporti che la sceneggiatura lascia poi tutti quanti irrisolti nello scioglimento? L’America, quando fa il verso all’Europa, pesca sempre in ciò che le somiglia, e anche quando prende spunto, come in questo caso, da modelli non eccelsi, riesce comunque a fare di peggio, a rendere tutto più anonimo, piatto, inverosimile, banale. I canoni narrativi occidentali sono ormai universali e i nuclei narrativi elementari intorno ai quali costruire una storia sono effettivamente un numero limitato. Tuttavia, come nella musica, il segreto non sta nelle note, ma nella composizione delle note. E non è mai sufficiente allinearle una dietro l’altra in modo meccanico e ripetitivo. Sarebbe troppo facile.