Parola al cinema

22/01/10 - Una delle pratiche più frequenti e più consigliate per la stesura di una buona sceneggiatura...

Parola al Cinema – Uno sguardo sulla sceneggiatura

“La prima cosa bella”: il “perfetto narratore” Paolo Virzì e il coraggio della non-riconciliazione

(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)

parola-al-cinema_def22/01/10 – Una delle pratiche più frequenti e più consigliate per la stesura di una buona sceneggiatura consiste nell’utilizzo delle “schede dei personaggi”, resoconti più o meno lunghi di vita, caratteristiche, pregi e difetti di tutte le figure umane coinvolte nella storia, dalle più importanti alle più marginali. Piccole biografie immaginarie, che servono da punto di riferimento nel successivo lavoro di scrittura del copione. E’ una pratica piuttosto noiosa, ma estremamente utile per evitare errori di continuità e incongruenze nel profilo dei personaggi. Molto spesso una buona parte delle caratteristiche enunciate nella scheda non si spostano da là, e non hanno un effettivo riscontro nel film, ma il trucco sta proprio in questo: trattare i personaggi come figure realmente esistite, di cui nel film si narra una tranche di vita, per conferire loro più verità, credibilità e spessore. Paolo Virzì, il suo fidato sceneggiatore Francesco Bruni e gli altri mutevoli collaboratori (in questo caso Francesco Piccolo), in ogni loro opera sembrano applicare tale principio in modo certosino. Non vi appare mai una figura sfocata, ogni personaggio, anche il più secondario, sviluppa comunque una propria linea narrativa coerente, con un suo inizio e una sua fine, che s’intreccia sì alla vicenda principale ma che potrebbe anche vivere di vita propria in un altro film. In “La prima cosa bella” l’esempio più significativo è ricoperto dal ruolo della zia Leda, personaggio secondario ma che affianca la vicenda principale per tutta la narrazione, e che perviene a una propria conclusione, in questo caso di redenzione personale. Ma lo stesso si può dire del personaggio del Nesi, del marito di Anna, veramente di tutti i personaggi. Non sono molti gli autori italiani attuali che presentano questa cura quasi maniacale per la precisione ed esaustività del racconto. Virzì ne fa una delle sue caratteristiche principali; nei suoi film nulla mai appare affidato al caso, vero o presunto. I suoi film sono scritti, si potrebbe dire, fin nei sospiri, e nella realizzazione dell’opera tale cura narrativa è profondamente rispettata. Certo, paradossalmente tale precisione ingenera anche uno dei suoi difetti più ricorrenti, e cioè la sequela interminabile di finali a chiudere tutte le linee narrative, messi in fila uno dopo l’altro, che era evidentissima in “Tutta la vita davanti” e che si riconferma anche in “La prima cosa bella”, sia pure più mascherata e resa più fluida da una lunga e sapiente sequenza corale. Ma il racconto resta sempre prioritario, e le sue regole rispettate con grande serietà. Non sarà cinema d’avanguardia alla ricerca di ardite sperimentazioni, ma poiché le attuali narrazioni italiane spesso si rivelano tragicamente gracili, onore al merito di chi, prima di tutto, si pone il problema di raccontare una storia al suo pubblico. Prima le regole: poi, eventualmente, una consapevole trasgressione.

A suo modo,“La prima cosa bella” costituisce in effetti una trasgressione e un primo cenno di superamento del Virzì finora conosciuto. La costruzione narrativa tende a una maggiore libertà, alcuni inserti sono felici e inattese variazioni a un pur ferreo tracciato narrativo (per esempio, la sequenza alla festa di piazza, tra danze, risate e zucchero filato…). Una narrazione più ariosa, con improvvise aperture di distensione e vere e proprie sorprese (il marito che diventa amante…). C’è forse un qualcosa in meno di lucidità nel profilo globale della protagonista, troppo sgallettata negli anni ’70 e troppo consapevole negli anni zero del 2000. C’è, anche, qualche interferenza tra il desiderio di celebrazione di miti cinematografici italiani e la credibilità del personaggio: per intenderci, l’Anna Nigiotti di “La prima cosa bella” è un omaggio dichiarato alla Adriana di “Io la conoscevo bene”, ma talvolta ne appare come la caricatura. Se Pietrangeli ne ha fatto una figura altamente tragica, fatta più di sguardi ingenui che di parole, Virzì la fa parlare moltissimo, la rende più esplicita, più grottesca, più melodrammatica e assai meno tragica. Se Adriana incarnava, in tutto e per tutto, una tragedia antropologica frutto di una precisa realtà sociale, Anna appare più un caso individuale, vittima di una confusa prigione provinciale e del classico chiacchiericcio di paese (paese e città, in Italia, in fondo son la stessa cosa).

Tuttavia, “La prima cosa bella” mostra un Virzì diverso, che in modi poco evidenti e declamati rifiuta nettamente la riconciliazione. Nelle opere immediatamente precedenti, a fronte di un grottesco più incattivito e disperato, l’autore livornese cedeva sempre sul finale a pagine di forzosa apertura verso la vita (e infatti capitava spesso di avvertire una certa delusione per quelle chiusure così artefatte). “La prima cosa bella” rifiuta l’idea della riconciliazione fin da subito. Siamo stati invasi, negli ultimi mesi, da opere italiane che rievocano il nostro passato e sempre in una chiave più o meno nostalgica. Gli anni ’70 di Virzì sono invece narrati come un vero e proprio incubo, deformati da uno sguardo letteralmente distorto (v. la scelta delle inquadrature). Un incubo a occhi aperti che sembra il frutto diretto di un falso, e di fatto mai iniziato, “sogno italiano” (il benessere esteriore e privo di un adeguato spessore morale degli anni ’60). Nei ricordi di Bruno il racconto assume quasi tratti gotici, in cui emergono la fatica di Anna nel voler credere nella vita a tutti i costi, e a contrasto la precoce disillusione dei suoi due figli “musoni”. Sul finale, è innegabile che il film rasenti il dolciastro, ma ancora una volta non c’è riconciliazione né redenzione per nessuno. Per un attimo sembra risplendere una certa pacata ammirazione per quella donna che, in punto di morte, riesce ancora a trovare il buffo della vita e a riderne. Ma Bruno non riesce a riderne. Quel che per Anna è stato un divertito spettacolo di passioni, baci e schiaffi, per i suoi figli assume i contorni di un vero dolore, senza possibilità di un reale superamento. Bruno si concede un bagno in mare, questo sì, ma la sua nevrosi non lo abbandonerà.

Così, accantonato per il momento l’ipergrottesco di “Tutta la vita davanti” e in qualche misura anche di “Caterina va in città”, la narrazione di Virzì si fa meno plateale, ma dominata da un lividissimo umore di fondo. Narratore perfetto, arrabbiatissimo, ma di una rabbia sempre più consapevole, e per questo lancinante. Gli manca ancora un vero senso del dramma; alla resa dei conti il melodramma di Anna non coinvolge moltissimo, eppure pochi altri, nel cinema popolare italiano degli ultimi anni, hanno avuto il coraggio di affermare con forza che del nostro recente passato sociale e antropologico c’è ben poco da rimpiangere. Così come c’è ben poco da amare nel nostro presente (“Tutta la vita davanti”). La causa di questo infinito disastro italiano? La superficialità, probabilmente, che Anna adora così tanto.