Parola al Cinema

12/02/10 - Nick Hornby è un buon romanziere, forse un filo sopravvalutato, che dà spesso...

Parola al Cinema – Uno sguardo sulla sceneggiatura

“An Education”: individuo e società, realismo e romanzesco, in chiave neo-britannica

(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)

parola-al-cinema_def12/02/10 – Nick Hornby è un buon romanziere, forse un filo sopravvalutato, che dà spesso frutti interessanti quando è tradotto in cinema. Stavolta si è dedicato direttamente alla sceneggiatura (in realtà è uscito anche un libro, ma è una sorta di novelization dello script), partendo dalle memorie di gioventù di una giornalista britannica, Lynn Barber. E la sua stoffa è ben riconoscibile nell’impianto dell’opera: personaggi brillanti, sostenuti da dialoghi che riescono a essere credibili pure nella loro evidente matrice letteraria, uno sguardo attento a una società in evoluzione e soprattutto ai suoi steccati, una riflessione di fondo che, sulla base di un piacevole e pure commovente drammacommedia, si radica su dolorose questioni storico-sociali. Se un film riesce a parlare di una società tramite un individuo, senza ridicole sottolineature o didascalismi, ci troviamo davanti a un buon film. “An Education” ci riesce, perlomeno per tre quarti della sua narrazione, e gran parte per meriti di sceneggiatura: la regia di Lone Scherfig è poco più che funzionale, talvolta pure un po’ disordinata, ma la storia è avvincente, ci fa sorridere e ci fa soffrire, e pure riflettere su molti dei mutamenti della condizione femminile occidentale dagli anni ’60 alle loro conseguenze sul presente. Perché? Innanzitutto, Hornby incrocia saggiamente materiale reale e materiale cinematografico; ovvero, da un lato si rifà ai canoni della neocommedia britannica, fatta di ambienti suburbani e anche di personaggi di grassoccia comicità (il padre interpretato da Alfred Molina pare quasi un dovuto dazio da pagare alla brit-commedia, per rassicurare il pubblico tramite schemi conosciuti), e radica la sua riflessione sociale su uno studio dal vero di caratteri e situazioni, dall’altro conferisce alla vicenda uno sviluppo prettamente romanzesco, con svolte, colpi di scena, decisioni vitali, illusioni, delusioni e un dichiarato romanticismo. Sviluppo romanzesco che presuppone numerosi archetipi letterari e cinematografici: il Pigmalione, le Sabrine in cerca di emancipazione a Parigi… Potremmo dire, l’archetipo-Audrey Hepburn. Un esempio per tutti, il primo incontro tra Jenny e David. In una Londra oscura come quella degli inizi ’60, malgrado la natura anticonformista di Jenny, è comunque molto romanzesco un approccio per strada di un adulto sconosciuto per una sedicenne, e che lei lo percepisca quasi come normale, anzi affascinante. Tuttavia, la sequenza è riuscita, credibile, in virtù di un sapiente incrocio tra dialogo, realismo e romanticismo (come resistere a chi si offre di accompagnare il tuo violoncello, lasciandoti a piedi per rispettarti?).

In sostanza, il conflitto, il problema intorno al quale si sviluppa la storia, è “qual è la strada più sicura per l’emancipazione femminile? Il duro studio che, nella Gran Bretagna dell’epoca, conduceva comunque a poche chance professionali, o la bella vita tramite la quale si può comunque rasentare l’arte senza troppa fatica?”. La questione sollevata non è delle più semplici, e Hornby decide di risolverla nel modo più facile solo nel finale. Fin da ultimo, traccia un percorso fatto di personaggi che, sia pur sfiorando qualche didascalismo, incarnano in modo verosimile i due schieramenti tra i quali oscilla la giovane Jenny. David e i suoi amici sono affascinanti ma non ci piacciono fino in fondo; la famiglia di Jenny e le figure delle insegnanti sono altrettanto emotivamente ambigue. Tramite il rifiuto di nette coordinate emotive e morali, Hornby perviene a un’ammirevole rappresentazione di una società culturalmente allo sbando, in cui nessuna strada pare garantire una buona riuscita individuale. Tanto che, per paradosso, la scelta di Jenny di sposarsi a 17 anni, rinunciare a Oxford e vivere nell’adorazione di un marito-padre, tra arte e concerti, passa quasi per totale anticonformismo.

an educationInoltre, Hornby non parla solo della donna. Il personaggio di David è ovviamente più secondario, ma si resta agghiacciati dalla rivelazione di quanto sia tragica la sua vita, fondata sul rimpianto e sull’illusione, passata alla nevrotica ricerca di ciò che non è stato e non potrà più essere. E’ spregevole, sì, ma non si riesce a odiarlo. Purtroppo Hornby delude, e molto, sul finale. Dopo il colpo di scena, la sua Jenny si ritrova in un vicolo senza uscita che assume contorni davvero tragici. E sarebbe stato necessario forse un po’ più di coraggio per chiudere su una nota di totale perdita d’identità. Invece, alla fine Jenny torna alla sua scelta di emancipazione, che però suona come un rientro nei ranghi, come un piegarsi alla società e ai suoi ingranaggi. E’ un finale consolatorio, tirato via in grande fretta, facilone. Probabilmente Hornby paga ancora il suo debito alle neo-convenzioni narrative britanniche, che prevedono sempre drammi chiusi bellamente con una facile risata, o con una soluzione comunque positiva. La trasgressione e il progresso, insomma, sono accettati, ma solo se acquisiti tramite un percorso tradizionale e interno alla società. La donna, per emanciparsi, deve studiare, comportarsi bene, e sperare nel futuro. Ma chi l’ha detto? In questo modo, per uno stranissimo ribaltamento percettivo, il desiderio di una vita migliore pare però aderire a tutti i valori del reparto-insegnanti, e una scelta di emancipazione appare un’adesione a idee piuttosto retrive. Poco importa, in fondo, se la vicenda è basata su una storia vera, e se la vera protagonista ha deciso poi di andare a Oxford. Una sceneggiatura taglia sempre i propri materiali narrativi, li riassembla, li ricuce, a seconda della tendenza dell’autore. Si raccontano sempre frammenti di realtà. E il frammento di “An Education” avrebbe avuto più senso e coerenza se fosse rimasto fedele alla sua idea di disorientamento emotivo e morale, ciò che sta alla base di un’esistenza ai limiti del tragico.

Per le premesse che vi erano, più che Audrey Hepburn, Jenny poteva essere una bella reincarnazione dell’Adriana di “Io la conoscevo bene” (su coordinate del tutto diverse, beninteso; Adriana era l’incarnazione dell’incoscienza di sé e della non-emancipazione, Jenny invece è molto più adulta e consapevole), che sul finale perdeva completamente se stessa. Non è certo necessario giungere alla massima tragedia del suicidio, ma “An Education” meritava senz’altro un finale più sospeso e interrogativo.