Italian Graffiti

30/03/10 - Si ha qualche difficoltà a collocare storicamente la figura di Steno nel panorama del cinema...

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Percorsi italiani nella (s)memoria cinematogrfaica collettiva

“La patata bollente” (1979) di Steno: la commedia all’italiana si apre a una società in trasformazione

(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)

italian graffiti30/03/10 – Si ha qualche difficoltà a collocare storicamente la figura di Steno nel panorama del cinema italiano: autore prolificissimo, spesso letteralmente a servizio del mercato e dei comici più diversi, il padre (per chi non lo ricordasse) dei Vanzina Brothers si delinea forse come uno tra i più onesti mestieranti della sua generazione, mai troppo ambizioso né intento a raggiungere l’alveo dei Grandi Autori, e al tempo stesso (quasi) mai volgare e totalmente corrivo. Dopo le coregie degli esordi in coppia con Mario Monicelli, Steno è di volta in volta “sparito” dietro grandi o meno grandi figure comiche: Totò, Alberto Sordi (è suo il mitico “Un americano a Roma”), le coppie Tognazzi-Vianello e Franchi-Ingrassia, Enrico Montesano, Paolo Villaggio, Renato Pozzetto, il Diego Abatantuono prima maniera, Johnny Dorelli, Lando Buzzanca, Monica Vitti, e pure Bud Spencer (curiosamente, non l’ha mai diretto in coppia con Terence Hill). Fedele a un’idea di cinema brillante, dalla parodia al puro comico, all’exploitation di generi non autoctoni fino alla commedia di costume, per tutta la sua carriera Steno ha visto ricordare i propri film per “quel tal film con Pozzetto” o “quel tal film con Dorelli”, e mai per “quel nuovo film di Steno”. Ovviamente, i meriti autoriali non sono mai stati veramente eccelsi, tanto che a distanza di anni, nella sua pur sterminata filmografia, è difficile poter individuare il “grande film di Steno”, il suo “film della vita”. Probabilmente uno di essi può essere individuato in “Febbre da cavallo”, non tanto per precisi meriti artistici quanto per esser diventato, tramite le centinaia di passaggi televisivi sulle reti private anni ’80, un immenso, imprevedibile fenomeno di culto a posteriori tra cinefili. Mestierante, che badava al sodo, a portare a casa il film, fare buoni incassi e mettersi rapidamente a lavorare su un altro progetto. Senza mai, però, scadere nella trivialità o nella cialtroneria di una bassa professionalità, e nei casi migliori facendosi forte di storie magari non scritte benissimo, ma in presa diretta sul reale.

E’ il caso di “La patata bollente”, una delle punte della sua carriera, arrivata in età già avanzata, che, di nuovo, probabilmente è ricordato per “quel film dove Renato Pozzetto operaio comunista ha a che fare con Massimo Ranieri gay, e c’è pure la Fenech”. Anche in esso, non si rilevano particolari meriti di regia, anzi si nota una bruttissima fotografia, inquadrature spesso immotivate, sempre prive di consapevolezza e riflessione critica, talvolta (in particolare negli interni della fabbrica) basate su una sconcertante rigidità e povertà di composizione dell’immagine. Anche sul piano narrativo, si trovano ovunque soluzioni facili e inverosimili (i neofascisti tornano in scena sempre al momento in cui sono necessari per il prosieguo della storia…). E sicuramente il boom d’incassi che il film registrò al botteghino dell’epoca non si fondava sull’appeal di una seria riflessione su pregiudizi culturali, sia pure in chiave di commedia, ma solo perché Pozzetto oggetto d’amore di un omosessuale “faceva tanto ridere” solo al pensarci. Tuttavia, a distanza di trent’anni, “La patata bollente” si presenta come un film assolutamente non banale, basato su un soggetto e una sceneggiatura che sulla carta dovevano presupporre una realizzazione ancora più riuscita e consapevole (Giorgio Arlorio, glorioso scrittore di cinema, autore del soggetto e coautore della sceneggiatura, ha in più occasioni affermato che il suo progetto iniziale era molto diverso). Rivisto con il senno di poi, la patata bollentel’odierna comunità gay italiana avrebbe davvero poco di che offendersi. Certo, ci sono le macchiette effeminate (ma è pur vero che all’epoca solo quel tipo di omosessuale aveva già acquisito una sua visibilità sociale), ci sono equivoci e situazioni tutte giocate sulla vergogna di ospitare un gay in casa, ma in tutta l’opera si respira un’aria e un approccio sanamente naif, come di un narratore che conosce poco ciò che narra, e tuttavia ha la voglia e il coraggio di narrarlo. Ed è un approccio che si attaglia perfettamente al profilo dei protagonisti, due operai (Bernardo e Maria) che si trovano ad affrontare una realtà fino ad allora percepita come lontana e sconosciuta. Tramite gli strumenti di una commedia iper-omogenea ai canoni del tempo, con tutte le annesse brutture estetiche e qualche vera stupidaggine (il viaggio in URSS, Pozzetto che imita Berlinguer davanti allo specchio…), Steno, i suoi collaboratori e i suoi tre affiatati attori narrano sostanzialmente la nascita di una bella amicizia, contro ogni pregiudizio e malevolo chiacchiericcio, spendendo una parola davvero convinta e sentita a favore di concetti all’epoca nemmeno contemplati, come comprensione, integrazione, rispetto dell’individuo e delle sue scelte sessuali. In più, non è affatto banale aver drammatizzato ulteriormente il conflitto narrativo delineando il personaggio di Bernardo come un comunista convinto, operaio, puro e duro, calato nel contesto delle contraddizioni di una sinistra storica che, almeno fino alla fine degli anni Settanta, non aveva mai mostrato grandi aperture verso la realtà omosessuale, in netto contrasto con i suoi stessi principi fondanti di libertà ed egualitarismo.

Una commedia politically correct, quindi, quando ancora non si ventilava nemmeno la vaga idea della “correttezza politica” in quanto la stessa “scorrettezza” sessuale non era contemplata, ai limiti dell’inconcepibile tabù. Steno dirige benissimo i suoi tre attori (ottima anche Edwige Fenech), ed è uno tra i pochi, forse l’unico, ad aver tentato di costruire un vero personaggio su Renato Pozzetto. Comico prettamente anni ’80, non si è mai liberato di tutti i suoi tic linguistici, spesso surreali (retaggio degli anni del cabaret in coppia con Cochi Ponzoni), e anche ne “La patata bollente” li ritroviamo puntualmente tutti. Ma il suo Bernardo è anche un personaggio, ben incarnato nel suo coraggio e nella sua paura, nella convinzione e difesa delle idee che ritiene giuste, ma messo in crisi dall’applicazione di quelle idee a una realtà che sulle prime non sa accettare. La sequenza in prefinale, quando balla con Massimo Ranieri alla festa del Primo Maggio in barba a tutti i pregiudizi dei presenti, è un piccolo capolavoro di regia e recitazione, e, per chi nella vita ha subito una minima discriminazione di qualsiasi genere, ci può scappare anche una certa, impensabile commozione.