Rondi, la critica è un’invenzione senza futuro

Gian Luigi Rondi, qual è stato il suo percorso professionale?
Ho incominciato come giovane assistente di Silvio D’Amico, che era presidente dell’Accademia di Arte Drammatica. Quando, subito dopo la fine della guerra, diventò critico teatrale al Tempo,  mi chiese se volevo essere il suo vice. Io accettai, era il 45-46. Al giornale c’era come critico cinematografico Luigi Chiarelli che si ammalò di cuore e disse al direttore di sostituirlo perché non se la sentiva più. Il direttore mi propose di prendere il suo posto, e io accettai. La malattia di Chiarelli si cronicizzò, e nel 1947 divenni a tutti gli effetti e a tempo pieno il critico cinematografico del Tempo.
Poi negli anni ’60 venni chiamato dall’Ente provinciale per il turismo di Napoli che mi propose di occuparmi degli Incontri internazionali del cinema. Ma siccome non volevo fare un festival come tanti altri, dissi che avrei voluto dedicare ogni edizione a una specifica cinematografia. Ebbi successo.
Negli anni ’70 il ministro dello spettacolo Mattia Matteotti mi propose la direzione della Mostra di Venezia, ma erano anni difficili: c’era stata la contestazione giovanile e in più lo statuto della Biennale era ancora quello vecchio, contestato da molti autori, che non prevedeva nomine elettive, ma dall’alto. Furono proprio autori quali Visconti, Fellini, Blasetti, Suso Cecchi D’Amico, Zeffirelli a schierarsi al mio fianco e formare attorno a me un comitato di lavoro che sceglieva i film. Ma nel ’73 visto che non si riusciva a cambiare lo statuto, proposi al presidente del senato Campagni, mio caro amico, che forse per favorire l’approvazione in senato del nuovo statuto sarebbe stato meglio se io e gli altri direttori della Biennale non avessimo accettato le nomine che venivano effettuate di anno in anno. Una mossa vincente: a luglio venne approvato il nuovo statuto.
Durante la mia direzione nel 72’ – quando non si potevano dare Leoni di merito – istituii dei Leoni alla carriera ai grandi della settima arte. In occasione del cinquantenario della Biennale nell’82 il direttore Lizzani mi chiamò al suo fianco per celebrare l’anniversario con dei grandi Leoni alla carriera ai più importanti registi viventi, quali Kurosawa. L’anno successivo divenni direttore della Mostra per la seconda volta. Poi dopo anni quale membro del consiglio direttivo, nell’87 divenni presidente della Biennale.
Ma ora dobbiamo tornare indietro al 1955, al mio impegno per quelli che allora erano chiamati David di Donatello. Nell’81 dopo la presidenza di Paolo Grassi, divenni presidente di questo Ente che oggi si chiama anche Accademia del Cinema Italiano: 1140 membri che attribuiscono ogni anno i David ai protagonisti del cinema nazionale.  

Parallelamente, come si è evoluta la critica cinematografica?
La critica si sta involvendo perché quando ero critico negli anni ’50 e ’60 avevo addirittura la coscienza che una mia recensione poteva essere la vita o la morte di un film. Se noi sostenevamo un film, e in 60 anni di carriera ho appoggiato molti grandi autori, sapevamo che questo avrebbe prodotto risultati estremamente positivi nel mercato cinematografico.
Con l’avvento della tv e poi di una certa progressiva disattenzione dei quotidiani alla realtà cinema, si è preferito pensare di più alla televisione e, grandi o piccoli giornali che fossero, il colore ha sottratto sempre maggior spazio alla critica. Oggi in occasione della conferenza stampa con registi e attori, i quotidiani danno grande spazio al film, indulgendo nel gossip. Poi quando il film esce in sala, dato che se ne è già parlato ampiamente, lo spazio per la recensione è esiguo. Su Repubblica e Corriere attualmente le recensioni occupano una pagina una volta alla settimana.

Esiste una “critica cinematografica cattolica”? Ancor prima, ha senso questa definizione, ovvero esiste uno “specifico critico di stampo cattolico”?
La mia definizione è quella che il mio confessore, padre Rotondi della Compagnia di Gesù, mi diceva sempre: “Non esiste un critico cattolico, esiste un cattolico che fa il critico. Cattolico non è un aggettivo, ma un sostantivo”. Non esiste un critico che fa il cattolico o l’anti-cattolico, il critico analizza il cinema da un punto di vista oggettivo: una cosa è tener in conto di certi atteggiamenti, opinioni, visioni morali, un’altra è partire da questi. Non credo esista un critico che faccia il cattolico di professione.

Il “metro critico”, viceversa, è il critico, indipendentemente dalla testata per cui scrive?
Il critico ha delle sue idee oggettive sul cinema, ma, soprattutto sui quotidiani, in primis di partito, deve anche tenere conto di certe indicazioni da dare ai lettori secondo l’orientamento della testata. Ma questo non deve modificare oggettivamente il suo parere sulla qualità.

Quali sono i prerequisiti del critico o, almeno, quali sono quelli di Rondi: come si accosta a un film, che cosa cerca?
Innanzitutto, ci vuole una competenza professionale a 360°. Il critico cinematografico a differenza per esempio di quello letterario deve conoscere la pittura, la scultura, la tecnica delle immagini, la fotografia e la letteratura. Inoltre, il cinema lo si conosce bene solo vedendo molti film, per cui a vent’anni un critico non è così bravo come a quaranta o a sessanta.
Uno deve valutare un’opera d’arte sulla base del gusto, che è sì personale, ma fa riferimento alle leggi dell’estetica. In un film vedo: la sceneggiatura, il modo in cui il racconto viene costruito; la regia, il modo in cui questo racconto è rappresentato con le immagini; i tempi del racconto; gli interpreti: molte volte un grande attore può salvare un film mediocre, per cui il critico deve anche avere rudimenti di recitazione. Inoltre, bisogna conoscere la storia del cinema perché un autore è tale non solo per quel film, ma per quanto ha alle spalle.

Esiste un tuo personale casus belli, ovvero un “film scomodo” che ha apprezzato stilisticamente e/o poeticamente, ma che ha “contrastato” sul piano etico?
Posso aver contrastato, ma sempre prima di dissentire dalle idee, valuto come queste idee hanno trovato manifestazione e rappresentazione. In memoria di me di Saverio Costanzo, per esempio, ha degli indubbi errori cinematografici, soprattutto in fase di sceneggiatura, e recensendolo non ho potuto fare a meno di notare come raccontando della Compagnia di Gesù raccontasse una realtà che non conosceva, e non conoscendola la raccontava male, senza dare spiegazioni. Nella regola di Sant’Ignazio, che conosco bene, c’è la regola della correzione fraterna: durante le riunioni e ricreazioni, i novizi debbono indicare quelli che ritengono siano stati comportamenti non idonei: è un modo fraterno di aiutarsi e consigliarsi, che nel film al contrario diventa mero pettegolezzo. Non solo, durante i pranzi i gesuiti leggono il martirologio, nel film invece si ascoltano musiche moderne: tutto questo è la totale ignoranza dell’argomento trattato.

Quale prevede o auspica possa essere il futuro della professione di critico?
A un critico giovane consiglierei di seguire il proprio gusto affinandolo con letture e visioni. Ma quando sarà pronto che potrà fare: quali spazi avrà per fare critica?

(Intervista a Gian Luigi Rondi raccolta da Federico Pontiggia l’8 maggio 2007)

Federico Pontiggia