Abel il figlio del vento

Un “famoso saggio” di David Graeber, Debito; Frederick Wiseman e la sua “grande tradizione di osservazione dell’istituzione totale”; “l’esigenza di raccontare in maniera ‘laterale’ la crisi”. Le note di regia, nel caso di alcuni film, meriterebbero una nota a parte. Nel caso de Le ultime cose, opera prima di Irene Dionisio in Concorso alla 31. Settimana della Critica di Venezia, è questa: la montagna ha partorito un topolino.

L’osservazione documentaristica della giovane Dionisio, la sua ispirazione wisemaniana, i saggi letti e la volontà di decrittare e incidere sulla crisi col cinema sono premesse e intenzioni non trasformate, perché a Le ultime cose manca la prima cosa per qualsivoglia opera d’arte, di studio o analisi: la capacità di suscitare interesse e, sperabilmente, assecondarlo e aumentarlo narrativamente.

Siamo a Torino, il microcosmo privilegiato per l’analisi del debito, e dunque della crisi, è il banco dei pegni, dove osserviamo, in particolare, tre soggetti e altrettante storie: Stefano (Fabrizio Falco), neoassunto al Banco, si scontra con l’esperto Sergio (Roberto De Francesco), ovvero con opacità e corruzione; Sandra (Christina Rosamilia), giovane trans, ritorna in città per ritrovare se stessa; il pensionato Michele (Alfonso Santagata) si fa “aiutare” dal cognato Angelo (Salvatore Cantalupo) per ripagare un debito e si ritrova nel gorgo del traffico dei pegni.

Raccontato, da un lato, isomorficamente, ovvero con stile dimesso e congruente all’humus socioeconomico; dall’altro, con accenni soapoeristici, rimandi bressoniani (le mani…), affondi o, meglio, cadute involontariamente comici, spesso contrappuntati da “musichette” diversive e cincischianti, atte a una commediola di costume, Le ultime cose non tratteggia nemmeno, solo suggerisce archi esistenziali, timori e paure, vorrei ma non posso, andando presto in debito, ecco, d’ossigeno drammaturgico: a parte i magheggi dentro e fuori del Banco, che veniamo a scoprire, conoscere, sentire?

Poco o nulla, e la mancanza di spazio d’azione e introspezione dei singoli personaggi induce serie carenze anche sul piano emotivo, ovvero empatico: in breve, ce ne frega qualcosa di questi umiliati e offesi, pur interpretati (quasi) uniformemente bene dai rispettivi attori? Dov’è la vita, il battito esistenziale, il polso sociale, la sporcizia che permea la realtà, il dolore e la sofferenza? Perché, viceversa, dobbiamo ritrovarci tra gli occhi raggi poetici di Un posto al sole?

Forse, è cinema (d’impegno) sociale questo, ma il massimalismo – mascherato, anzi, “laterale” – delle intenzioni non si traduce nel minimalismo dei mezzi, bensì nel minimismo degli esiti. Direbbe la compianta Sandra Mondaini, “Che noia, che barba, che barba, che noia!”.

Federico Pontiggia per cinematografo.it