L’esplosione di un amore in tir per l’Europa

Raccontare una società dai confini fluidi alla base del progetto sociologico di Francesco Mattuzzi per Il peso del sogni, presentato alla Festa del cinema di Roma. Un doc che poi si è evoluto in un racconto più intimo sui sogni di due giovani europei su un tir 26 giorni al mese. La nostra intervista al regista.
Intervista a Francesco Mattuzzi a cura di Giovanna Barreca

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Quando si progetta un documentario si prevede da subito un dispositio drammaturgico, consapevoli che poi la casualità, ciò che avverrà in fase di riprese svolgerà un ruolo importante e potrà anche trasformare completamente il lavoro. Il disegno narrativo molto forte di base, vale a dire raccontare l’Europa contemporanea seguendo il flusso delle merci sui tir, su delle vere e proprie case mobili, è rimasto nel documentario Il peso dei sogni di Francesco Mattuzzi, presentato alla Festa del cinema di Roma ma, l’incontro con una coppia di sposi che viaggia insieme dividendo la stessa cabina dal Brennero al Nord Africa, ha permesso alla macchina da presa di trovare un centro di osservazione preciso e consapevole.
Una vicinanza di spazi e di prospettive che soprattutto all’inizio ha rafforzato il legame tra Aurelio e Latifa ma che, col passare del tempo, ha disgregato un’unione che non riusciva ad avere un’evoluzione “normale”, come ripete più volte la donna parlando della creazione di una famiglia con bambini, di una casa con fondamenta stabili. I loro sogni e prospettive di lavoro sono rimaste congelate all’interno di una cabina che il doc è stato capace di mostrarci ogni girno più piccola, più claustrofobica.
Mattuzzi passa molto tempo con i suoi personaggi, viaggia con loro ma, consapevole che spesso il dispositivo filmico è un impedimento nella relazione con gli interlocutori, ha lasciato anche che tante scene fossero girate dai suoi protagonisti per cogliere quell’intimità, quei discorsi, quegli sguardi confusi sul futuro impossibili alla presenza di terzi. Ha cercato e il film ne ha giovato molto, non una composizione sempre attenta dell’immagine ma ha privilegiato ciò che la sua non presenza poteva regalare al documentario. “Ho usato una regia remota per scendere di livello, di intimità perchè volevo che si raccontassero più da vicino. Registravano tantissimo, poi – quando si dimenticavano della telecamera – uscivano i momenti più intensi, unici”.
Nella nostra intervista il regista ci ha raccontato come ha cercato di liberarsi dal suo passato da fotografo e si sia immerso nella narrazine, nella scrittura “imparando facendo” e capendo che poi il fulcro del film diventasse un amore impossibile perchè “in una scatola così piccola Aurelio e Latifa passavano 26 girni al mese e questo spazio li ha fatti esplodere”.

giovanna barreca