Berlino 67: The Lost City of Z

Le fiaccole che spiccano nella nebbia aprono e chiudono The Lost City of Z, il nuovo film di James Gray attesissimo alla Berlinale 2017. L’oscurità che ingoia la luce anche in senso metaforico visto che il film è dominato dall’irrazionalità come filo conduttore, come elemento di contagio fisico, sociale e culturale che però dà vita (è solo uno dei vari affascinanti paradossi del film) a un film tutto interiore, più familiare che spettacolare.

Il film si ispira alla vera storia di Percy Fawcett, un militare inglese dei primi del ‘900 che durante un’esplorazione nella giungla amazzonica per la Società Geografica di Sua Maestà scopre la possibilità che in quei luoghi selvaggi si nascondano le vestigia di civiltà evolute e perse di immensi tesori. La passione archeologica e l’ipotesi della ricchezza diventeranno per lui un’ossessione totalizzante. Partendo da Z – La città perduta di David Grann, Gray (anche sceneggiatore) realizza un film d’avventure e dramma esistenziale come fosse un kolossal degli anni ’70, un film produttivamente impossibile nell’industria attuale – alto costo e impianto da film d’autore, senza franchise o poderosi effetti speciali dietro, girato in 35mm e quasi consapevole di un possibile fallimento produttivo tanto da vivere una travagliata esperienza produttiva – eppure anch’esso figlio del piglio quasi ossessivo del suo autore.

E proprio su questi elementi potenzialmente disastrosi, The Lost City of Z fonda la sua bellezza: Gray realizza un film che attraverso un’inusuale potenza visiva racconta una saga – e si sente che la produzione è intervenuta per ridurre il minutaggio a 140’ -, un’epica oscura che parte dalla testa del protagonista (sorprendente Charlie Hunnam) e si allarga al suo rapporto con la famiglia e chi lo circonda, che abbraccia la famiglia, gli amici e in ultimo la Storia per chiudere con gli ultimi 20 magnifici minuti in cui la visionarietà che cova dietro le spire del film si libera e riempie lo schermo.

Punta molto in alto Gray, guardando a Michael Cimino (la scena in apertura della caccia al cervo) e Werner Herzog (l’opera lirica nel mezzo della giungla), a Lean, Milius e John Huston, ma ha le carte giuste per non sfigurare, se non per eguagliare i maestri: a partire da un’incredibile fotografia di Darius Khondji capace di far percepire allo spettatore il respiro narrativo del film e la mancanza di lucidità fino alla secchezza acuminati dei dialoghi, The Lost City of Z è un film che con forte impatto filmico e maestria sa rendere contemporanee immagini classiche, che sa rievocare il senso della meraviglia senza odorare di nostalgia, che sa sfidare i propri limiti, difetti e sbagli fidandosi della propria inattualità e della propria follia: non a caso il film si chiude con Sienna Miller, il personaggio più centrato e ponderato dell’intero film, che si avventura nella giungla per cercare il marito. Ma è una giungla mentale, di chi non riconosce più la porta di un palazzo inglese dal delirio della disperazione: un ultimo atto di irrazionalità, l’ultima vena dorata di un film cupo, denso e romantico.

Emanuele Rauco per cinematografo.it