Fuoco e fuorifuoco in dialogo

Un altro me di Claudio Casazza, presentato in anteprima mondiale al Festival dei Popoli di Firenze, arriva in sala grazie a Lab80 film. Il documentario del regista milanese osserva il trattamento seguito da alcuni autori di reati sessuali ma vuole essere il tentativo di un dialogo tra carnecifi e vittime per infrangere il tabù del mostro che non serve a una società che dovrebve educare e riabilitare i cittadini.
Intervista a Claudio Casazza a cura di Giovanna Barreca

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Solo nel 1996 è nata la legge sulla violenza sessuale in un Paese che ancora considerava tale crimine come un reato “contro la morale pubblica” e non “contro la persona”. Le pene vanno dai sei ai dodici anni di reclusione.
Il documentario Un altro me di Claudio Casazza, presentato in anteprima mondiale al Festival dei Popoli di Firenze (suo il premio del pubblico) e nelle sale dal 13 aprile – distribuito da Lab80 film-, sceglie di osservare ciò che accade nel primo esperimento italiano di trattamento intensivo per autori di reati sessuali. Casazza entra nella casa circondariale di Bollate e filma il trattamento, l’intenso lavoro di riabilitazione (a questo dovrebbe servire ogni struttura detentiva nel mondo) condotto dagli ospiti con criminologi, psicologi, educatori, psicodiagnosti perchè il tabù del mostro va abbattuto, per il bene della nostra società tutta, non solo delle vittime e dei carnefici. Come afferma il criminologo Paolo Giulini: “La pena detentiva per gli autori di reati sessuali si è dimostrata inadeguata e insufficiente come unica forma di tutela e risarcimento nei confronti delle vittime e della società in generale. Il nostro progetto è una sfida tesa a dimostrare che un approccio scientifico e sistematico di riabilitazione è un modo etico ed efficace di proteggere la collettività, ridurre le vittime e prevenire i comportamenti devianti”.
Il lavoro di ricostruzione di sè, del concetto di uomo che si rapporta con una donna da non vedere più come oggetto ma come persona è complesso. Il tema della vittima è quello che resta centrale durante tutta la terapia: prima in cerchio, avviene la lettura di una lettera di una donna che ha subito violenza, poi l’incontro fisico con un’altra donna vittima dello stesso abuso e poi la scrittura – da parte di un detenuto -di una lettera alla sua vittima.
Fortunatamente Un altro me non fornisce risposte. La terapia non è un percorso chiuso. Il cerchio non viene chiuso e il documentario si conclude con un enorme punto di domanda per ospiti e per gli spettatori che, come racconta anche il regista, porta a chiacchierate molto intense a fine proiezione perchè gli stati d’animo scaturiti dall’opera sono diversi.

giovanna barreca