Pesaro 53: Children are not afraid of death, children are afraid of ghosts

Gli anni ’90, quelli dell’AIDS. Gli anni ’90, quelli degli attivisti di Act Up-Paris, associazione di lotta contro l’AIDS nata nel 1989 sulla scia dell’originale americano, che moltiplicano le azioni di dimostrazione e ribellione contro il silenzio e l’indifferenza generale. Gli anni ’90 di Sean (Nahuel Perez Biscayart), Nathan (Arnaud Valois), Sophie (Adèle Haenel), Thibault (Antoine Reinartz), che mettono nel mirino le aziende farmaceutiche, colpevoli di non rendere disponibili ai malati le cure necessarie contro l’HIV, e la refrattarietà di un’intera società a fare qualcosa.

Assemblee collettive (occupano gran parte del film), sit-in, irruzioni nelle sedi societarie, volantinaggio, gay pride, manif, tutto serve a lottare per la prevenzione, da un lato, e la garanzia della cura dall’altro: gavettoni di sangue finto, manifesti espliciti, coreografie, Act Up barcolla ma non molla. Mai, e Sean ne è un esempio illuminante: combatte fino alla fine, mette ogni residua energia in quella battaglia civile, attirando l’attenzione, e non solo, del nuovo arrivato Nathan.

Opera terza di Robin Campillo, dopo Le revenants (2004) e Eastern Boys (2013), già sceneggiatore per Laurent Cantet, 120 battements par minute concorre per la Palma d’Oro di Cannes 2017, e potrebbe avere più di qualche chance.

Nel lavoro assembleare, nella lotta per strada e contro big pharma (ante litteram), nel sesso e nella musica (Bronsky Beat), e nella morte, segue un manipolo di duri e puri, evitando moralismi – c’è solo lotta per la precauzione, non messa in questione dei comportamenti – ma al contempo senza allargare il campo, forse volontariamente, a prostitute, drogati e altre categorie a rischio: no, questi battiti, questa battaglia sono delle e nella comunità LGBTQ, e solo qui.

Ben interpretato, su tutti dal protagonista, l’argentino Perez Biscayart, costruito in quella forma collettiva, collegiale, dialogica già conosciuta in Cantet, soprattutto ne La classe, non privo di belle trovate di regia, 120 bpm è, non inedito, corpo politico, eros e thanatos, sangue – anche la Senna diverrà rossa – e Francia, San Giorgio contro il drago, fino all’ultima stilla.

E’ troppo lungo, qui e là emendabile nei dibattiti, ma anche vitale, disperato e speranzoso insieme, sempre indomito e talvolta commovente. E’ una love story e un film di guerra, è sangue e sesso, e molto verosimile: non nasconde quasi nulla, anche nel sesso, e batte, e pompa. Aritmie e tachicardie, si capisce, sono il rischio calcolabile.

Federico Pontiggia per cinematografo.it