Pesaro 53: Drôles d’oiseaux (Strange Birds)

Il segnale, chiaro e inequivocabile, che Yorgos Lanthimos stesse reinventando il suo cinema come gioco vuoto ed elegante di pure forme, lo aveva dato Lobster, il suo lavoro precedente.
The Killing of a Sacred Deer – in gara a Cannes 70 tra molti fischi – certifica la metamorfosi definitiva. Il regista greco sembra perso.
Vellutati movimenti macchina, carrellate avanti e indietro, linee di ripresa che si intersecano secondo una punteggiatura precisa, che il montaggio restituisce come ritmica del visivo; scenari asettici, freddi;  personaggi anaffettivi, quasi incorporei (anche l’ultima frontiera dei sensi, l’atto sessuale, viene rimpiazzato da rituali necrofili).
Il mondo messo in scena irrimediabilmente postumano. Non ci vuole una grande ermeneutica per capirlo. Tutto molto esibito, trasparente: il film che si apre con un’operazione a cuore aperto in primo piano si sviluppa come puntuale, crudele vivisezione del genere umano, che Lanthimos si diverte a stendere sul tavolo autoptico.

Lo fa partendo ovviamente dalla cellula umana fondamentale, la famiglia. Borghese. Lui cardiochirurgo, lei oftalmica, corpo e mente, cartesianamente simbiotici, of course. Le simmetrie prestabilite contemplano anche la prole, maschio e femmina, lui (il minore) cocco di mamma, lei amore di papà.
Questa famiglia ha tutte le carte in regola, ma come si tiene insieme se le fondamenta sono marce?
La facciata della casa appare solida e opulenta, ma al suo interno le mura scricchiolano. Basta un soffio per farla crollare. E il soffio si ipostatizza in un ragazzo di sedici anni, che il cardiologo ha preso sotto la sua ala protettiva dal momento che, scopriamo, ha causato la morte di suo padre.

Scoperte le carte, il film si comporta come un classico home invasion, solo camuffato dietro volute di fumo estetico soffiate dall’unico fuoco che brucia qui, quello dell’autocompiacimento.
Ovviamente i meccanismi di genere vengono oleati da Lanthimos a forza di paradossi, fatti inspiegabili, grevi strumenti ad arco e quintalate di sadismo. Giusto per darsi un tono.
Il tono di chi sostanzialmente cerca di raccontare l’irruenza del sacro e dell’irrazionale nel temp(i)o del post-umano. Lanthimos riattualizza un sapere antico, il rapporto tra colpa e restituzione suggerendo – e sta qui l’unica intuizione del film – la sua ritualizzazione nelle forme contemporanee dell’ economia di scambio, dove esistono solo  debitori e creditori. E dove nessuno, se può, paga di tasca propria.

Lanthimos denuncia a parole ma si tira indietro nei fatti. Lui non ama nessuno dei suoi personaggi (dispiace per attori come Nicole Kidman e Colin Farrell). Non ne salverebbe nessuno.
Non chieda dunque di essere salvato da noi. Si chiama restituzione anche questa.

Gianluca Arnone per cinematografo.it