L’infanzia di un capo

In un sistema cinematografico che alimenta culti incomprensibili, barricate preventive, adesioni incondizionate e una critica da stadio, un film come The Beguiled ci sta benissimo.
Il nuovo lavoro di Sofia Coppola, che d’ora in avanti chiameremo con il titolo italiano L’inganno (uscirà a settembre con Universal), è la classica operazione che spacca gli addetti ai lavori lasciando invece tranquillamente indifferente il pubblico (non fosse altro perché i numeri al botteghino dei film da festival sono, in nove casi su dieci, terrificanti).

Ci piacerebbe dire che sul film c’erano alla vigilia, equamente divise, paure e speranze ma in realtà erano molte di più le certezze aprioristiche. Di chi odia la Coppola a prescindere, e di chi la ama contro ogni evidenza. A questi schieramenti di partenza dovevano poi sommarsene altri due, tra chi si sarebbe fatto cavare un occhio piuttosto che vedere il remake del capolavoro originale di Don Siegel, La notte brava del soldato Jonathan, e chi appariva tutto sommato possibilista. Con ulteriori frange interne: quelli che “ritoccato sì ma non dalla Coppola” e quelli che “Siegel chi?”.

Il compito della figlia di Francis Ford, in uno scenario così pregiudicato, era innegabilmente ingrato. E il risultato in effetti ne finisce condizionato. Come se l’operazione tradisse qualche prudenza di troppo.

Ma quale lavoro di traduzione compie la Coppola rispetto al romanzo di Thomas P. Cullinan, A Painted Devil, da cui anche il film del ’71 era tratto? E quali, dunque, le differenze rispetto alla versione di Siegel?

Come molti di voi sapranno è un racconto ambientato in Virginia, mentre la guerra civile americana volge al termine. Le vicende però si svolgono quasi tutte all’interno di un collegio femminile guidato dall’austera Miss Martha, la cui rigorosa ruotine viene interrotta dall’arrivo di un soldato nemico ferito, raccolto tra i boschi da una delle giovani collegiali. La presenza di quest’uomo in un universo femminile chiuso innescherà la pericolosissima miccia del desiderio e delle rivalità, con conseguenze fatali.

L’opera di Cullinan viene normalmente ricondotta al filone letterario del southern gothic, di cui la visione della Coppola è molto più debitrice rispetto a quella più calda e dionisiaca di Siegel. La regista americana sceglie una luce baluginante e velata in esterno, crepuscolare all’interno (che il direttore della fotografia Philippe Le Sourd illumina naturalmente con il solo ausilio di candele). Crea un’atmosfera più sinistra che morbosa, smorzando la carica ormonale della vicenda, raffreddando – si direbbe – i bollenti spiriti.

In effetti qui contano più le strategie messe in atto dai personaggi per ottenere qualcosa, segnare il punto in una complessa e soggiacente trattativa per ottenere il controllo della situazione. Il secondo passaggio chiave per comprendere la rilettura dalla Coppola è l’inevitabile slittamento prospettico, dal punto di vista maschile a quello femminile. Forse perciò sceglie un attore a zero densità come Colin Farrell, per poterlo tranquillamente decentrare, confinandolo prima in un angolo e infine al di fuori del microcosmo che realmente le interessa, l’impassibile e spietato gineceo capitanato da Martha/Nicole Kidman.

L’inganno diventa allora l’ennesimo insight della Coppola in un mondo chiuso, un mondo di sole donne, sorretto da ferree regole, rigidi rituali e una struttura gerarchica di potere immodificabile. Il maschio diventa così il bottino di guerra, per chi saprà aggiudicarselo, utile a ridefinire i rapporti di forza, incluse le alleanze.

Non sorprende dunque che, al netto di ogni scandalo o ambiguità (la Coppola ad esempio elimina la scena del bacio tra il soldato e la bambina che lo trova nel bosco), il cuore del film sia la rivalità sommessa tra le due donne più alte in grado, la direttrice (Nicole Kidman) e l’insegnante (Kirsten Dunst), con le collegiali più piccole utilizzate come soldatesse e quella “di mezzo” (Elle Fanning), come subdolo agente civetta, capace di spostare gli equilibri.

Nessuna di loro sparerà un colpo ovviamente (le pallottole sono cose da maschi), il gineceo lascia che le cose si sistemino all’interno di un inflessibile apparato normativo, dove il rituale determina il tempo, la regola lo spazio e la metafora l’azione (non per altro a uccidere il povero soldato sarà la sua ingordigia per “i funghi”).
Il problema è che per mettere in scena un microcosmo così impermeabile ed edulcorato, la Coppola resta attaccata alla sua superficie, come se seguitasse a decorare la casa senza mai preoccuparsi di chi ci vive dentro. Dietro il nome e una performance attoriale più impostata che altro, non captiamo il personaggio, non ne percepiamo i battiti, non ne avvertiamo l’esistenza oltre la sua previsione.

Resta questo un cinema denotativo, incapace di utilizzare le immagini, pure belle, per rivelare la storia sotterranea, il ribollire del retroscena, il caos del sottosuolo. Di cui tutto si può dire, meno che siano una prerogativa maschile.

Alla Coppola servirebbe più coraggio forse per andare al di là del compitino bene eseguito, a volte divertente, più spesso ozioso e non sempre vivo. Sì, le servirebbe Siegel.

Gianluca Arnone per cinematografo.it