Un richiamo identitario tra luoghi e animi in Koudelka

Josef Koudelka fotografa la Terra Santa del regista israeliano Gilad Baramarriva arriva nelle sale italiane per Lab80 film. Vi presentiamo una clip del documentario che racchiude molto dello spirito del fotografo, lo scopo del suo lavoro.
Una clip di Josef Koudelka fotografa la Terra Santa di Gilad Baram

“Non volevo venire in Israele, principalmente perché ho pensato: prima di tutto sono europeo, e mi sto concentrando sull’Europa, mi sento europeo e c’è ancora molto da fare qui. Ma c’è dell’altro, so che è complicato, ma… Non volevo sentirmi coinvolto mentalmente. Perché succede all’improvviso, inizi a sentirti coinvolto in qualcosa anche se non era tua intenzione. Quindi cerco di mantenermi distaccato, per quanto posso, perché so… che non cambia nulla,che io me ne interessi o meno. Ma ora sono consapevole di quello che posso fare, posso andare in giro e mostrare alle persone ciò che forse non hanno mai visto”.
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Una clip del documentario dove Josef Koudelka racconta il suo modo di vivere la fotografia, la sua scelta stilistica di andare oltre la foto di denuncia, il ritratto, il racconto. Nulla di tutto questo. Nel viaggio durato 5 anni in Cisgiordania, muovendosi tra Betlemme, Gerusalemme, Hebron, Ramallah e ritornando più volte negli stessi luoghi alla ricerca del quadro perfetto, il fotografo sceglie di rendere protagonisti dei suoi scatti quei lembi di terrotorio feriti dal muro che divide israeliani e palestinesi, “quella terra che non può – come afferma davanti alla macchina da presa di Baram – difendersi”. Il suo occhio ferma in immagini fisse in bianco e nero le barre di cemento, entra nel filo spinato e da quel punto di vista racconta il paesaggio circostante (e non solo) ferito dalle lame d’acciaio, da una violenza che viene subita e che l’autore – diventato famoso grazie agli scatti della fine del sogno della Primavera di Praga del 1968 -, conosce bene tanto da affermare: “Un muro, due prigioni”, ieri come oggi. Koudelka sembra chiedere, attraverso i suoi lavori, a due nazioni (e forse al mondo intero) di guardarsi in faccia, di riconoscersi in una ferita così profonda creata al territorio e agli animi degli uomini che subiscono tale condizione.

Il merito del documentario del giovane regista Gilad Baram, prestatosi a fare anche da assistente e traduttore del fotografo per ben 5 anni, è aver scritto il documentario restando fedele al suo personaggio, catturandone lo spirito e trasmettendolo allo spettatore nella sua totale essenza (oltre a regalare agli appassionati alcuni segreti sul linguaggio fotografico di uno dei maestri del settore). La macchina da presa dell’autore israeliano è fissa, indugia spesso in lunghi piano-sequenza e lascia che sia Koudelka a creare il racconto all’interno dell’inquadratura, con la sua macchina fotografica, con il suo osservare il paesaggio, con il suo fare un passo avanti o uno indietro all’interno del quadro nel quadro della sua lente. C’è una vera e propria ricerca di un’identità nell’immagine sia attraverso la telecamera che attraverso l’obiettivo della macchina fotografica. E lo spettatore, di tale corrispondenza, non può che rimanere affascinato.

giovanna barreca