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01/02/11 - "Le ragazze di San Frediano" di Valerio Zurlini: neorealismo rosa in “profondità di campo”...

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Percorsi italiani nella (s)memoria cinematogrfaica collettiva

“Le ragazze di San Frediano” (1954) di Valerio Zurlini: neorealismo rosa in “profondità di campo”, più consapevole, più amaro, meno conciliante

(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)

italian graffiti01/02/11 – Dopo diversi successi, quantomeno di critica, dovuti a cortometraggi e documentari, Valerio Zurlini esordisce nel lungometraggio con una prova “d’occasione”, commissionata dalla casa di produzione Lux Film, che l’ha assoldato nelle sue file e gli ha affiancato una coppia di sceneggiatori, Leo Benvenuti e Piero De Bernardi, destinati a un lunghissimo e fortunato sodalizio professionale. L’occasione è il breve romanzo Le ragazze di San Frediano di Vasco Pratolini, che si traduce in un rarissimo, probabilmente unico, esempio cinematografico di “neorealismo rosa” in salsa fiorentina. L’operazione segue le linee principali di una retorica espressiva divenuta dominante nel cinema italiano anni ’50: storie e ambienti popolari ereditati dal neorealismo tout court, ma riletti in una chiave più “aggarbata”, più conciliante, sempre tendente alla commedia, al bozzetto, al sorriso indulgente verso categorie sociali e morali del tempo assunte per larghissima sintesi e approssimazione. Così come il metodo è da “neorealismo rosa”: Zurlini sceglie volti, non attori, tutti giovani e belli, e poco importa se nessuno di loro è davvero toscano ed è necessario ricorrere al doppiaggio per mantenere il vago realismo di un dialetto abbozzato.

Tuttavia, tale definizione non rende giustizia fino in fondo all’opera prima di Zurlini. Che già da subito mostra uno sguardo diverso rispetto alla vulgata della commedia anni ’50. Innanzitutto, il “Bob” protagonista è più “personaggio” di molti dei suoi contemporanei apparsi sullo schermo. Certo, assomma molte delle caratteristiche umane più diffuse e narrate nel nostro cinema brillante in quegli anni (il gallismo, la superficialità, l’immaturità), ma le incarna con un margine discreto di consapevolezza, sia interna al personaggio, sia pertinente al contesto narrativo e allo sguardo autoriale. Il film si mantiene ironico e molto divertente, anzi in diacronia appare più divertente della media del suo cinema coevo, grazie soprattutto a un ritmo narrativo serrato e inusuale per la commedia del tempo, in cui emerge con forza una sapiente costruzione narrativa che si affida meno alla “prova” del protagonista e più all’intreccio in sé. Ma, come valore aggiunto, Zurlini mantiene anche un distacco critico verso il suo protagonista, che gli permette di narrarlo come essere umano, e non come semplice figurina compiacente. E ciò si allarga a tutto il corteo di figure femminili che gli si dispongono intorno. Figure rapide, appena sbozzate, ma ognuna ben narrata, mai ridotte a pura funzione.

E’ neorealismo rosa, dunque, ma in “profondità di campo”, e ciò anche in virtù di una maggiore forza stilistica. Pur in un contesto leggero, Zurlini mostra già una notevole sensibilità per la composizione dell’immagine. Si vedano i lenti carrelli a definire gli ambienti, i movimenti avvolgenti intorno agli attori nei momenti più amari e credibili (il confronto tra Bob e Mafalda sul pianerottolo di casa). Neorealismo rosa che interroga se stesso, le proprie figure, le proprie mistificazioni. Come se Zurlini dicesse al suo pubblico “C’è molto meno da sorridere di quanto sorridete, rasserenati dal racconto dei vostri stessi valori”. Pur modificando sensibilmente il finale rispetto al romanzo, l’autore chiude il film su una nota amarissima. I calci e gli schiaffi, così buffi sul momento, sanciscono in realtà l’incapacità/impossibilità di una fuga da un contesto sociale da cui Bob, ingannando e mentendo per tutto il film, ha già a suo modo tentato di fuggire.