Cappuccetto rosso sangue

13/04/11 - La fiaba di Perrault riletta in chiave horror-gotico al servizio di un teen-movie che declina la spettacolarità in una messa in scena sciatta e pretenziosa.

La regista del primo atto della teen-saga Twilight si confronta con la rivisitazione in chiave horror-gotica della popolare fiaba di Cappuccetto Rosso nell’ennesimo prodotto furbetto e ammiccante destinato a un pubblico giovanile senza troppe pretese. “Quale sarà, tra i due bellimbusti contendenti, a far breccia nel cuore dell’eterea Valerie?“. “Chi si nasconde dietro il lupo mannaro assetato di sangue che semina il terrore nel villaggio?“. Ridotti all’osso i riferimenti alla storia originaria, e con essa, a tutti quei sottotesti e implicazioni che hanno segnato sogni e incubi di intere generazioni, il plot gioca sul suddetto duplice quesito, scartando le potenzialità del secondo per enfatizzare il primo al servizio di quel retroterra pruriginoso e sottilmente bigotto caro alla Hardwicke racchiuso nel tentativo di sublimare la componente sessuale in un tripudio involontariamente ridicolo di sguardi torvi e ciglia sbattute, ansiti e sospiri.

E se già la trama non offre più che un piatto andamento da fotoromanzo, non vanno meglio le cose sul versante di una messa in scena, il cui impianto visivo smaccatamente ispirato a The Village di Shyamalan ne depura l’atmosfera di tensione e le suggestioni più inquietanti in un blando approccio di tipo televisivo fatto di primi piani e campi-controcampi, scenografie intonse e costumi lindi. Il risultato assume così il sapore plastificato e posticcio di una sorta di parco dei divertimenti a tema, trasudante teatro di posa da ogni fotogramma e incapace di restituire, pur entro la finzione diegetica, un universo in qualche modo credibile e capace di ospitare una vicenda che, schiacciata da cotanta pretenziosa artificiosità, non riesce mai coinvolgere o appassionare. Nella stessa direzione si muove perfino il cast, assemblato più in funzione del presunto appeal presso il target di riferimento che in virtù del talento o dell’aderenza a personaggi e contesto (Amanda Seyfried si limita a vagare spaesata sgranando gli occhioni, i suoi spasimanti Shiloh Fernandez e Max Irons sembrano usciti da una boy-band) nel quale si salvano solo i due veterani Gary Oldman e Julie Christie. Sorprende – e dispiace – leggere tra i nomi dei produttori quello di Leonardo Di Caprio.

CATERINA GANGEMI

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