Italian Graffiti

17/05/11 - Le mani sulla città (1963) di Francesco Rosi: il cinema di denuncia più essenziale, tra polemica civile, riflessione estetica e rilettura del neorealismo.

Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva a cura di Massimiliano Schiavoni

italian graffitiNella sua eredità lunga e proteiforme, c’è un’altra incarnazione del neorealismo italiano: il cosiddetto “cinema di denuncia”, specialmente nella forma assunta tramite Francesco Rosi a partire dai primi anni ’60, che trova la sua più alta espressione in Le mani sulla città (1963), film che raccolse il Leone d’Oro a Venezia in mezzo a furiose polemiche, in Italia scandalosamente inedito in dvd (reperibile solo in dvd Criterion d’importazione), e che discende parzialmente dal nostro cinema anni ’40 più conosciuto. Al di là della superficiale comunanza d’interessi verso problematiche sociali sotto le forme più varie, ciò che tiene idealmente insieme il neorealismo con la nuova fenomenologia di cinema civile (quantomeno nelle sue prime occasioni) è soprattutto rintracciabile nel metodo, nell’utilizzo della macchina da presa, nel connubio tra documentario e fiction. Dopo l’Italia postbellica anni ’40, adesso tale metodo si sposta nella carne viva delle istituzioni, entra coraggiosamente nelle stanze del potere, andando a scandagliare le radici del diffuso malessere e malaffare sociale proprio laddove la “ricostruzione italiana” è decisa e messa in atto, soffermandosi sul “cosa e come”, sulle modalità perverse tramite le quali la presunta rinascita nazionale definisce se stessa.

Il metodo, dunque: certo, ci si muove secondo notevoli approssimazioni, dato che il cosiddetto neorealismo s’incarna in figure autoriali spesso molto lontane una dall’altra. Ma in Le mani sulla città, innanzitutto, come i suoi illustri predecessori Rosi rifiuta la drammaturgia convenzionale, mescola star americane (Rod Steiger), attori professionisti e non professionisti trattandoli alla stessa stregua, compone lunghe sequenze in cui le azioni salienti emergono poco alla volta, riducendo quasi a zero l’evidenza narrativa del racconto classico. Il “pedinamento”, stavolta, è applicato a furibondi consigli comunali, a cupe discussioni di commissioni d’inchiesta, a traversate di vicoli napoletani fatiscenti. La recitazione accosta qualità del tutto eterogenee, secondo un principio di assoluto riconoscimento prioritario alla realtà. Tuttavia, Le mani sulla città si mantiene anche avvincente, serrato, a suo modo un racconto di suspense. Perché? In primo luogo, perché nel procedere della narrazione Rosi adotta progressivamente strategie di racconto più tradizionali. Poi, e soprattutto, perché sono la macchina da presa e la scelta delle inquadrature a condurre il discorso estetico. Rosi resta fedele al suo interesse per l’indagine del reale, ma non piazza una macchina da presa fissa davanti a una tavolata di consiglieri, bensì sceglie punti di vista angolari, talvolta ricorre al piano-sequenza, spesso si sofferma sul comportamento di un personaggio in relazione all’ambiente (per essenzialità narrativa, è esemplare la traversata del commissario di polizia in mezzo ai palazzi minacciati di demolizione). Cinema di altissima resa stilistica, che non esaurisce la sua carica polemica solo in interminabili dialoghi esplicativi, bensì trasforma la stessa macchina da presa in strumento di polemica. Troppo facile sarebbe parlare di “cinema attuale” e “profetico”: vero è, d’altra parte, che l’immagine secca ed essenziale di un’Italia esplosa, priva di vero senso dello stato, abbandonata a se stessa in mezzo a una selva di falsi valori, piegata fatalmente all’interesse privato, fa accapponare la pelle per le tante somiglianze con l’oggi.

Il “pedinamento” di un degrado sociale, narrato con secca essenzialità e potenza drammatica: