La polvere del tempo

01/06/11 - Dopo La sorgente del fiume, Theo Angelopoulos prosegue la trilogia sulla memoria con un affresco sul ‘900, le sue ideologie, i suoi sogni infranti.

Ascolta le interviste di RADIOCINEMA ai protagonisti del film:

  • il regista Theo Anghelopulos
  • il produttore Amedeo Pagani
  • Guerre, diaspore, colpe dei padri che ricadono sulla prole innocente, la Storia, con il suo cieco determinismo, rende la vita degli uomini assai simile ad una tragedia greca. A ricordarcelo è il più celebre degli autori ellenici contemporanei, Theo Angelopoulos, che con La polvere del tempo – The Dust of Time prosegue la sua trilogia sulla memoria, iniziata nel 2004 con La sorgente del fiume. Per raccontarci una vasta porzione della Storia d’Europa, che va dalla Seconda Guerra Mondiale fino all’inizio del nuovo secolo, Angelopoulos sceglie la metafora collaudata della mise en abyme, ovvero del film nel film, ma la travalica poi per attingere direttamente dalla memoria dei propri personaggi.

    Al centro della scena troviamo A. (Willem Dafoe), un regista impegnato a Cinecittà con le riprese di un film sulla vita dei propri genitori. La sua crisi creativa lo porta a mescolare lacerti della pellicola che sta girando con i propri ricordi, quelli della sua famiglia e quelli della realtà presente, tormentata dalla fuga improvvisa della figlia adolescente. Ma La polvere del tempo è soprattutto la storia dei genitori A., Eleni (Irène Jacob) e Spyros (Michel Piccoli), che si trovano ad attraversare una serie di eventi capitali del secolo passato, dalla morte di Stalin alla prigionia prima in Siberia poi in Kazakistan, dalla guerra civile greca alla caduta del muro di Berlino. Accanto a loro, l’ebreo tedesco Jacob (Bruno Ganz) è testimone di un amore che, nonostante tutto (compreso il desiderio di Jacob di unirsi a Eleni), supera le distanze geografiche e le ostilità del fato.

    Affascinante affresco sul ‘900, i suoi sogni e le sue grandi ideologie, La polvere del tempo è un film potente e necessario, che ci restituisce, dopo l’episodio poco convincente di La sorgente del fiume, un Angelopoulos in piena forma, capace di una sorprendente freschezza di sguardo. Lo stile del maestro non è affatto appannato, ritroviamo la sua usuale messinscena fatta di lunghi ed elaborati piani sequenza, ma si è persa, ed è un bene, quella ieraticità che caratterizzava i suoi lavori precedenti e che rischiava di diluirne il portato etico-politico. La macchina da presa volteggia sempre negli spazi, ma il suo movimento è ora saldamente governato dal desiderio di riscoprire, anche con movimenti inattesi ed apparentemente vani, la centralità dell’uomo. Mescolando macro e micro eventi, Angelopoulos ci ricorda infatti che la Storia è soprattutto fatta, e non solo subita, dagli uomini, che hanno abbattuto i muri, lottato per gli ideali, hanno deposto le statue dei dittatori e presto, forse, faranno lo stesso con i televisori. Centrale è poi qui il ruolo della famiglia, la sua dissoluzione genera figli prigionieri dei ricordi, come A., oppure, come accade a sua figlia, completamente avulsi da una realtà che non riescono ad abitare. Il ricordo e la consapevolezza delle proprie origini costituiscono dunque un binomio inscindibile che mira a sostituire il concetto di “Patria”. Nel finale Angelopoulos cita esplicitamente Joyce, ma ci ricorda anche quanto diceva Pasolini nella sua poesia “Io sono una forza del passato”: solo se sappiamo davvero da dove proveniamo non corriamo il rischio di smarrirci, senza più “padri”, tra le ceneri di un “dopostoria”.

    DARIA POMPONIO

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