At the end of the day

15/07/11 - Apprezzato regista di videoclip Cosimo Alemà esordisce con un cinema di genere indipendente e a basso budget che conquista il mondo ma annoia.

Ascolta l’intervista di RADIOCINEMA a:

  • il regista Cosimo Alemà
  • D’estate le sale cinematografiche italiane subiscono una desertificazione generalizzata. Nonostante stagioni alterne, sforzi non sempre razionalmente ordinati e molte dichiarazioni d’intenti, in Italia, dalla tarda primavera al primo autunno, i cinema vengono disertati tanto dalle distribuzioni, che per la bella stagione confezionano listini di titoli “secondari” da mandare al macello, quanto dagli spettatori, spesso diffidenti sempre distratti da altri pensieri. E in sala tra giugno, luglio e la prima metà di agosto finiscono così film che forse durante l’inverno non avremmo visto mai: una miscellanea senza nessuna coerenza che contiene al suo interno cinema d’animazione, commedie demenziali e cinema comico di seconda scelta, avanzi di magazzino di varia specie, cinema di genere a basso costo. Sempre più spesso per di più nelle torride settimane estive al grande schermo approdano film nostrani di difficile collocazione (opinione di chi li deve gestire non certo di chi scrive).

    At the end of the day, esordio nel lungometraggio del non giovanissimo Cosimo Alemà è un esempio tipico di un’uscita estiva, prima e più di tutto perché rappresenta un buon esperimento di “film commerciale” che tenta – con successo – l’avventura internazionale: prodotto tutto italiano infatti, il film – che è una rivisitazione stonata dell’horror thriller splatter/gore ormai molto in voga un po’ in tutto il mondo – è interpretato da un cast interamente straniero e recitato in inglese. Non ancora giunto nelle sale nostrane è stato già venduto in più di mezzo mondo e piazzato sugli scaffali dell’home video – nei negozi e in rete – nell’altra metà. Alemà viene da una lunga carriera come regista pubblicitario e di videoclip musicali, e ancor prima da una non breve gavetta sul set. A questo esordio ci arriva dopo molti anni dal primo fiorire di una semplice suggestione: il gioco della guerra – il soft air, messa in scena ludico sportiva che mima realisticamente battaglie e scontri a fuoco – non disinnesca la violenza, ma innesca anzi l’arma della forza offensiva che prima o poi esploderà. Seguendo uno dei trend del momento – il cinema a soggetto che s’ispira a “fatti realmente accaduti”, sottolineando la propria origine “reale” – Alemà si cimenta a viso aperto col cinema di genere ibridando un certo horror con l’action thriller che sembra decisamente preferirgli. L’arco narrativo è ridotto al minimo e così pure i dialoghi che nonostante la scarsità di parole funestano la visione a intervalli regolari eccedendo oltremisura in ridondanza e banalità. L’uso della macchina a mano, il costante gioco con la messa a fuoco che moltiplica i piani dello sguardo, condondenfoli poi l’uno con l’altro, il disegno del sonoro raffinato ma apparentemente privo di legami con il corso del film e la colonna sonora ispirata a un fin troppo vistoso controcanto lirico delle scene di violenza, dimostrano una padronanza della tecnica che però non diventa mai né discorso né intrattenimento. Inutile star qui a discettare sull’uso forse davvero immorale che si fa della violenza o sui rilievi che potrebbero farsi sulla scelta di usare un certo specifico realismo dentro la cornice del cinema di genere, perché in fondo quel che non funziona è che il film, che si propone di coinvolgere, avvincere, intrattenere, è purtroppo solo occasione di noia.

    SILVIO GRASSELLI

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