A Dangerous Method

02/09/11 - David Cronenberg in concorso a Venezia 68 con un riuscito pastiche storico sulle origini della psicanalisi.

Dal nostro inviato MASSIMILIANO SCHIAVONI

Da diversi anni David Cronenberg gira letteralmente ciò che vuole, muovendosi con una tale libertà artistica da indurlo a spaziare tra opere spesso, e in apparenza, opposte e diversificate. A Dangerous Method conferma tale tendenza. Un’opera in costume, girata in punta di macchina da presa, quasi un dramma da camera storico tutto centrato su tre personaggi (più un paio a supporto) e sugli albori della disciplina della psicanalisi. Una sorta di pastiche, che muove da eventi attestati nei rapporti tra Gustav Jung, un già attempato Sigmund Freud e la giovane nevrotica Sabina Spielrein, paziente di Jung e poi seguace dei metodi dei due luminari, per approdare a una riflessione sugli universali della psiche, quantomeno della cultura occidentale. Alla base dell’opera c’è una pièce teatrale del noto Christopher Hampton, da lui stesso brillantemente sceneggiata, che ricostruendo le dinamiche controverse fra i tre personaggi conduce al contempo un discorso sulla scoperta di se stessi tramite i medesimi strumenti messi a punto dai due progenitori della psicanalisi. Analisi e autoanalisi: processo conoscitivo che porta alla luce, più di tutto, l’ipocrisia di Gustav Jung, incapace di liberarsi da categorie repressive da lui stesso ratificate e combattute. “Tra i protagonisti emerge a poco a poco un comportamento infantile quanto quello dei pazienti – dice Viggo Mortensen in conferenza stampa – Le loro teorie sono simili, ma l’orgoglio, il puro orgoglio infantile li allontana e li mette in conflitto”. Opera solida, classica, appassionante, ben recitata, da Michael Fassbender e soprattutto da uno strepitoso Mortensen nei panni di Freud, con qualche riserva per Keira Knightley, talvolta incapace di gestire il sopra-le-righe di un personaggio nevrotico, a ben vedere A Dangerous Method si colloca coerentemente nel percorso artistico di Cronenberg.

Per lunga parte della sua carriera, infatti, l’autore canadese ha affrontato i limiti fisici dell’essere umano, la frantumazione dell’io fisico, la sua fusione con l’inorganico. Adesso Cronenberg trasferisce tale conflitto tutto all’interno dell’essere umano, e secondo tali termini l’inorganico, l’immateriale sono identificati nelle pulsioni più profonde. Scontro, dunque, tra pulsione irrazionale e il suo occultamento. In tal senso, assume maggiore rilevanza il personaggio della Spielrein, che in qualche modo conduce alla massima tensione il conflitto tra istinto e ordine sociale. E la speranza finale di Jung, di poter un giorno donare un cambiamento ai pazienti, e non solo la diagnosi del loro disturbo, si colloca altrettanto nel solco delle mutazioni che sempre ha caratterizzato il cinema di Cronenberg. L’inquietudine per un futuro che, a inizio Novecento, prevedeva “mutazioni psichiche”. Liberarsi dei disturbi per trasformarsi, forse, in automi perfettamente funzionanti. Non è forse la stessa inquietudine che ritroviamo nel Cronenberg di Rabid, di Il demone sotto la pelle, di La mosca, di Crash? La maestria di Cronenberg emerge soprattutto nella capacità di dissimulare l’origine teatrale tramite una messinscena sobria, classica e totalmente allergica agli effetti. Si può sdoganare un testo teatrale al cinema anche tramite gli strumenti più elementari della messinscena. Non soltanto tramite il più facile mezzo dell’ “amplificazione all’esterno”, ma anche tramite scelte di regia e di ripresa. A Dangerous Method lo dimostra, e si pone al momento come l’opera più convincente passata in concorso a Venezia 68.

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