Amore carne

In sala da giovedì 27, il nuovo film di Delbono è un raro esempio di sperimentazione visivo-narrativa, accostata al racconto di una soggettività eccessiva e esasperata. Commovente e teorico. La nostra intervista al regista.

Autore di un cinema, oltre che di un teatro, estremamente personale e volutamente sgradevole, Pippo Delbono presenta al Lido nella sezione Orizzonti il suo nuovo film, Amore carne, in cui mette in scena ancora una volta se stesso e la sua malattia (ha contratto il virus dell’HIV 22 anni fa). Come già in passato, Delbono usa un semplice telefonino – e, a tratti, un piccola videocamera – per filmare i suoi amici e le ossessioni che lo attraversano, la madre che gli parla in tono cantilenante e il mondo che va lentamente sparendo di fronte ai suoi occhi. E infatti, per combattere il labile filo che ancora lo lega al mondo, Delbono si lancia in un vitalismo che è già sintetizzato nello stesso titolo del film: l’amore e la carne, da unire quasi come a formare un’unica parola, per un gesto di compenetrazione totale con il presente, per una verifica e un desiderio di contatto con il corpo stesso della materia.

Film vitalistico e mortifero, Amore carne pone come fondamenta estetiche del suo discorso l’occhio e la voce del regista. Lo sguardo di Delbono infatti è distorto, fallace e parziale a causa di una cicatrice all’occhio con cui da anni il regista deve convivere. Anzi, questi arriva a dire che è proprio dalla scoperta di quella cicatrice, dal fastidio e dalla difficoltà del gesto di vedere, che nasce il suo cinema. Così, da una mancanza e da una parzialità dello sguardo discende la necessità di farsi cine-occhio. Ed è questo un elemento di radicalità assoluta che pone Delbono immediatamente al di là dei ristretti margini del nostro cinema, dove i difetti si nascondono e tutto deve avere un’apparenza di pulizia della ripresa e del suono. L’altra caratteristica essenziale di Amore carne del resto è l’uso espressivo che Delbono fa della sua voice over oscillante tra dialogo interiore e interpellazione allo spettatore; una voce che arriva a farsi canto ritmato e poi addirittura urlo disperato, lancinante. È la prospettiva di morte che arriverà inesorabile per il regista malato e che lui decide di combattere in modo espressivo, per un grido che è affermazione del sé, del proprio essere – ancora – al mondo.

ALESSANDRO ANIBALLI