Un poliziotto da happy hour

11/10/11 - L’esordio di McDonagh, menzione speciale al Festival di Berlino, è costruito su misura per uno strabordante Brendan Gleeson.

Il primo lungometraggio di John Michael McDonagh (fratello del più conosciuto Martin, regista di In Bruges – La coscienza dell’assassino) mette in luce gli stereotipi degli irlandesi sugli americani e viceversa, attraverso la figura di un sergente di provincia della verde isola e un agente dell’FBI americano, arrivato lì per indagare su un traffico internazionale di cocaina. Il primo è tronfio, beone, grasso, va a letto con le prostitute e dice sempre la cosa sbagliata, il secondo è politicamente corretto in ogni suo comportamento ed è un salutista. Un poliziotto da Happy Hour è una mistura di generi, che vanno dalla commedia al thriller, ma il regista decide di non prendere una posizione ben definita nei confronti del materiale a sua disposizione e il film risulta pertanto riuscito solo a tratti. Infatti, se nella prima parte McDonagh dimostra di saper gestire una scrittura sagace che gioca sui cliché dei reciproci Paesi – non solo degli irlandesi sugli americani, ma anche degli inglesi sugli irlandesi e viceversa -, a lungo andare la pellicola perde il suo mordente fino a diventare una storia di alleanze morali e facili sentimentalismi, dove ovviamente il “cafone” irlandese si rivela il classico burbero da letteratura d’appendice, che nasconde un cuore d’oro, mentre il rigido uomo di legge dovrà rivedere le proprie opinioni.

Gli stereotipi sociologici, inizialmente divertenti nelle battute e nelle gag, lasciano presto spazio ad una scrittura priva di inventiva e a una regia piatta che viene trascinata dalla funzionalità del racconto. E così il mescolamento dei generi diviene solo un pretesto narrativo per un film internazionale che accontenta un po’ tutti i palati e si americanizza sciattamente nelle scene d’azione. Paradossalmente, McDonagh si rivela invece più sensibile e capace nella strutturazione del sottotesto malinconico delle vicende di contorno, gettando uno sguardo non banale sulla madre patria, qui raccontata attraverso microstorie della provincia gaelica (il bambino bulletto, la coppia che non parla inglese, la croata sposata a un gay per il permesso di soggiorno, la madre morente, etc.), sempre ritratte con pungente ironia. Funzionano bene anche le dinamiche umoristiche fra i due protagonisti, anche se la pellicola risulta troppo sbilanciata a favore della figura del poliziotto irlandese, ben costruita e congegnata, mentre quella dell’americano funge solo da spalla. Lo stesso accade per le interpretazioni dei due protagonisti: Brendan Gleeson è in piena forma e mette tutto il suo talento istrionico e la sua energia strabordante al servizio di un personaggio che è un classico del suo repertorio; al contrario, Don Cheadle, così come l’agente dell’FBI che interpreta, sembra poco a suo agio nel ruolo di “spalla” e si lascia soffocare dalla performance del collega. McDonagh realizza dunque un film altalenante che non centra il punto focale, ma si rivela più interessante nei suoi contorni. Sotto tutti i punti di vista: dalla recitazione dei caratteristi (su tutti il cameo della “mater morente2 Fionnula Flanagan, strepitosa), alla fotografia, al montaggio. Là dove è un “film irlandese” va tutto bene, quando poi si vuole “americanizzare” cominciano i problemi.

ERMINIO FISCHETTI

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