White Men

21/11/11 - Lo sconvolgente dramma degli albini africani nell'intenso documentario di Alessandro Baltera e Matteo Tortone. In prima nazionale al Festival dei Popoli.

Dalla nostra inviata GIOVANNA BARRECA

Ascolta l’intervista di RADIOCINEMA ai registi del film:


  • Alessandro Baltera e Matteo Tortone
  • Diventare ricchi all’istante attraverso pozioni magiche che contengono parti del corpo umano, braccia e gambe di albini africani. Alla base di White Men di Alessandro Baltera e Matteo Tortone c’è la volontà di capire come sia possibile nel 2011 che sciocche credenze popolari siano la causa di una persecuzione ai danni degli albini africani. Chi nasce albino in Africa è infatti spesso emarginato, allontanato dalla società e spesso dalla famiglia. Oltre a questi soprusi chi è colpito da albinismo è ritenuto un portatore di sventure e rischia di essere ucciso a causa della credenza che attribuisce poteri enormi ad alcune parti del suo corpo. La Tanzania non è un luogo di analfabeti, anzi un paese in fase di forte evoluzione, e osservare come nella zona subsahariana con il più alto tasso di albini sia ancora presente e diffuso tale fenomeno (aggressioni in crescita e più di 60 omicidi in due anni sono i dati di quella che sta diventando una vera emergenza sociale dal 2007 tanto da balzare alle cronache internazionali) è alla base di un documentario straordinariamente coinvolgente nel suo racconto asciutto di quattro esistenze ai margini. I torinesi Alessandro Baltera, Matteo Tortone hanno scelto il Festival dei Popoli per presentare un film prodotto con grandissima carenza di risorse (alla fine è arrivato l’aiuto della Piemonte Film commission) e ancora privo di una distribuzione italiana anche se dalla prima visione è stato chiaro a selezionatori, e da oggi anche al pubblico, il suo grande valore cinematografico.

    Prima di tutto c’è l’aspetto del racconto dei vivi, delle vite di Alfred, Samson, Maneno, Dixon, detto Mr. White, che lottano perché ogni giorno valga la pena di essere vissuto: tra l’operaio che si fa accompagnare al lavoro dall’amorevole moglie per paura di non poter tornare a casa, al ragazzo che attraverso il rap vuole far conoscere la sua condizione; importante è uscire dal retaggio culturale, dall’idea di essere un corpo spesso malato – gli occhi e la pelle delicata mal tollerano il clima e il sole africano – ma con un gran valore per chi crede in alcune leggende popolari. Adulti e bambini sono prigionieri nella propria città e nella loro stessa fisicità. Soprattutto i piccoli sono tra le prime vittime di aggressioni e rapimenti commessi per un misero guadagno in un luogo dove una vita può valere meno di una cassa di birra (chi poi guadagnerà migliaia di dollari è il mandante, non l’esecutore materiale). A colpire non è solo la tragicità della sorte di questi albini ma anche l’aspetto estetico del racconto filmico. L’uso del bianco e nero, quasi sporco con immagini volutamente poco nitide. I formati diversi – dal telefonino per le scene in ospedale, dove sono vietate le telecamere, alle macchine da presa in HD – e la totale assenza di una colonna sonora, di suoni extradiegetici che minino l’autenticità delle situazioni sono un valore aggiunto al film, così come la scelta di far progredire la narrazione attraverso continue false soggettive dei protagonisti che, grazie ad un intelligente uso del mezzo, diventano fondamentali per guidare lo spettatore. Da rimarcare poi la totale mancanza di giudizio presente nel documentario che Baltera e Tortona hanno montato in Italia, lavorando per sottrazione, per lasciare al pubblico la possibilità di “vedere” davvero la quotidianità-oppressione di quattro esseri umani della nostra epoca calati nell’orrore.