The Oregonian

04/12/11 - A Torino 29 l'esordiente regista Calvin Reeder clona, tra mille confusioni e sciatterie, un film di genere splatter anni '80, nato da un suo sogno.

Dalla nostra inviata LIA COLUCCI

Incubo, realtà parallela oppure solo un sogno? Il regista Calvin Reeder ha ammesso candidamente di aver sognato tutta la storia di The Oregonian e di averla scritta di getto, senza affidarsi a nessuna teoria o darle un significato recondito, perché a suo avviso questa storia genuina vale mille inconsci. Di fronte a tale tracotanza ci si aspetterebbe quantomeno un film stratificato e invece ciò a cui assistiamo è il clone di uno splatter anni ’80, peraltro terribilmente confuso. Di certo sappiamo che siamo nello stato dell’Oregon, dove una fanciulla fugge da una difficile convivenza. Da qui si abbandona ogni logica e la ritroviamo in una macchina, insanguinata e con due cadaveri di fronte. Invece di seguire la strada verso il villaggio viene attratta da suoni incomprensibili: è andata in coma e sono le macchine del’ospedale? Oppure sono segnali pericolosi di oscure presenze? In questa strana contaminazione tra l’horror e il road-movie il percorso della giovane protagonista prosegue con incontri misteriosi: una donna con un ghigno da strega, un uomo con l’asma che produce urina di tutti colori, un pupazzo di peluche verde che sembra pedinarla a ogni passo. Non mancano poi bibite dai colori misteriosi e gruppi di musicisti inclini più alla follia che al sesso.

Dopo tali esperienze la ragazza dell’Oregon, oramai insensibile anche di fronte alla morte di due sconosciuti, non può che finire con lo stesso ghigno che tanto l’aveva spaventata nella donna incontrata all’inizio. D’altronde Reeder ha ammesso di non aver avuto bisogno di una sceneggiatura. E questo capolavoro di ispirazione infatti va avanti per conto proprio, tanto da avere a un certo punto la chiara percezione che non sia sostenuto da alcuna direzione. Tanta è la confusione degli elementi messi in gioco che diventa fin troppo facile per lo spettatore perdersi in una noia mortale. Proposito che probabilmente era nelle intenzioni del regista. E certamente non gioca a suo favore il fatto che sia un esordiente, perché tale sciatteria non è permessa a nessuna età. Anzi, chi comincia dovrebbe avere cura nei dettagli e rispetto delle regole. Calvin Reeder non fa né l’uno né l’altro, oltre a lasciare gli attori in balia di loro stessi contribuendo in tal modo a generare ulteriore caos. Potremmo dire che per lui il mondo onirico è per ora interdetto, mentre gli si spalancano le porte della psicoanalisi. Un’esperienza che dovrebbe fargli capire come estrarre dal materiale grezzo dei sogni l’ispirazione per un soggetto con un minimo di credibilità. Certo poi ci vuole il talento, ma per quello non ci sono porte spalancate.