Hugo Cabret

27/01/12 - Adattando il lavoro omonimo di Selznick, Scorsese sperimenta il 3D tornando alle origini del cinema con un tributo commosso a Georges Mélies.

Dopo un’inutile anticipazione al Festival di Roma e con qualche giorno d’anticipo rispetto all’anteprima ancora festivaliera prevista al Future Film Festival di Bologna, il nuovo film di Martin Scorsese è stato presentato alla stampa, in 3D e in versione doppiata. Tratto da una graphic novel sui generis nella quale Brian Selznick – nipote del magnate della grande Hollywood – mescola la forma della fiaba illustrata con la prosa del racconto breve, iniettando nella concezione del libro alcuni tratti vagamente cinematografici (didascalie da film muto, formato delle illustrazioni che richiama l’idea dello still tratto da un film, ecc.), il film di Scorsese sovrappone l’esordio nella stereoscopia al tributo nostalgico e primitivista tutto centrato intorno alla figura fondativa di Georges Mélies. L’orfano di un orologiaio vive, solo, negli anfratti della stazione di Parigi, consumando i suoi giorni nel tentativo di aggiustare un automa grazie al quale il piccolo spera di scoprire il messaggio lasciatogli dal padre defunto. Un giorno, insaspettatamente, nel giocattolaio che gestisce un chiosco in stazione il bambino ritrova uno dei primi grandi maestri del cinematografo.

Lenta, macchinosa, ridondante e amena, la prima parte del (lungo) film passa faticosamente, dedicando poco meno di un’ora alla sola presentazione dei personaggi, fingendo accuratezza e cercando – senza riuscirci – la notazione sagace. Poi gli ingranaggi della storia iniziano lentamente a girare più in fretta, i fatti s’incastrano l’uno con l’altro e – tolto finalmente di mezzo il vacuo pathos di un mistero niente affatto misterioso – la fiaba riesce ad accendersi di un qualche fascino. Il 3D c’entra poco, è invece il padre visionario della fantasmagoria cinematografica – interpretato dal sempre affidabile Ben Kingsley – a far precipitare lo sguardo dello spettatore dentro il racconto che scorre sullo schermo. Scorsese si piglia il cameo più sfizioso, prestando il corpo al fotografo che immortala i coniugi Mélies davanti al loro nuovo teatro di posa trasparente, e con la sua apparizione fugace segna l’inizio del momento più felice – anche se breve – di tutto il film: tutt’a un tratto ci si ritrova in un dinamico e colorato diorama, sul set con Mélies, dietro le quinte, in mezzo agli attori, intorno alle macchine e ai macchinari, ai trucchi, ai costumi e ai giochi da illusionista inventati – e spesso anche costruiti – dal prestigiatore che arrivò per primo sulla luna. Le smorfie, il fremere di narici, il sentimentalismo da illustrazione popolare il dispiegamento di armi digitali è da buttare: solo resta lo splendore restaurato dei minuti d’archivio lasciati alle visioni – quelle originali – del maestro Mélies e il sentimento commosso – solo questo per davvero – dell’allievo Scorsese che offre al maestro un monumento postumo.

SILVIO GRASSELLI

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