Battleship

Il gioco della battaglia navale diventa un rumoroso ed eccessivo film di Peter Berg che non sempre però sa colpire il bersaglio. Sprecato Liam Neeson.

A partire da quale momento l’intrattenimento dello spettatore si è trasformato in stress audio-visivo? Peter Berg con Battleship, il suo nuovo film, ripropone la questione e passa dall’egida di Michael Mann (che gli ha fatto da produttore per Hancock e The Kingdom) a quella di Michael Bay, dirigendo il blockbuster di punta del 2012 della Universal con le regole dei kolossal del regista di Transformers. Che come si vedrà non è un buon mentore.
Ispirandosi alla Battaglia navale, il classico gioco di carta e matita commercializzato poi da Hasbro, il film racconta un invasione aliena via mare durante un raduno internazionale di militari: costretti da un scudo radar ad affrontare il nemico alla cieca, la marina capitanata da Alex Hopper, dovrà vedersela con un avversario potentissimo. Chiaramente, la strategia di botta e risposta del gioco è un pretesto nella sceneggiatura di Jon e Erich Hoeber per realizzare un tonitruante film di fantascienza bellica che si piazza tra Independence Day e Pearl Harbor.

La formula del film, cara a un certo cinema americano, è quella del militarismo e della sua retorica calati in un contesto spettacolare, fatto di esplosioni, distruzioni, suoni altissimi e durate che si dilungano, in cui sostanzialmente si baratta l’inventiva – se non proprio l’originalità – con un catalogo di topoi del genere passando in rassegna, oltre ai suddetti film, anche Titanic e Transformers. Tutto è sempre più grande, enorme, quasi pachidermico, ma Berg non sa gestirlo: come normalmente accade nei film prodotti da Bruckheimer, si parte con 20 minuti piattissimi che portano poi a un meccanismo grossolano in cui si confonde lo spettacolo col luddismo, il divertimento del pubblico con le torture dei sensi che gli stessi militari praticano sui terroristi; meglio – in ritmo e vitalità – la seconda parte del film, quando “le regole del gioco” si fanno sentire.
Il resto sono più di due ore passate a mostrare i 200 milioni di dollari spesi, a far esplodere e crollare tutto ciò che si trova a tiro, a sbagliare i tempi del climax, a cadere continuamente di tono (l’uso della vecchia corazzata e dei veterani), a pensare che di più sia meglio comunque, a sprecare un attore come Liam Neeson. A un vaglio psicoanalitico e ideologico, il film rivelerebbe lati ancora più discutibili e sgradevoli, ma non interessa di certo al grande pubblico per cui il film è pensato. Provare a riflettere però su come il cinema contemporaneo ad alto budget tratti lo spettatore più come cavia che come interlocutore, potrebbe essere interessante, anche per chi vuole spendere i fatidici 8 euro.

EMANUELE RAUCO