Il monaco, romanzo gotico di fine ‘700 scritto da Matthew G.Lewis, fu un testo cardine per il movimento surrealista di più di un secolo dopo, tanto che Artaud e Bunuel cercarono di metterne in scena un adattamento. Il primo a riuscirci è però il regista francese Dominik Moll, alla sua terza regia per il grande schermo, con Le moine, melodramma cupo e incerto, ma di sicuro fascino. Protagonista è Ambrosio, un orfano divenuto monaco integerrimo che, a causa di un misterioso confratello, comincia a conoscere a poco i piaceri della carne, finendo coinvolto negli abissi demoniaci della perdizione. Scritto dal regista con Anne-Louise Trividic, Le moine è un dramma gotico dalle sfumature erotiche e demoniache e, al tempo stesso, una discesa nella perdizione estrema e un’ odissea di espiazione.
Vedendo Le moine, non si fatica a capire cosa abbia spinto Breton e soci a esaltare il testo di Lewis: il sesso, l’eros e i turbamenti della carne in un contesto religioso, castelli e abbazie, elementi onirici (il monaco con la maschera) e melodrammatici, il demonio che conduce la discesa all’abisso del protagonista. Moll gioca con contrasti estremi tra luce accecante e buio fondo grazie alla fotografia di Patrick Blossier, occhieggia al cinema delle origini coi mascherini tondi che isolano le immagini, ma fatica a mescolare le carte, mancandogli il giusto coté crudele e visionario per andare fino in fondo. Poi però, nell’ultima parte, l’estro di Moll si accende, la passione trattenuta esplode e il regista sa mettere in scena uno spettacolo che vibra e colpisce e riscatta un film che altrimenti un po’ blando, quasi di maniera. Al contrario di un Vincent Cassel usato contro parte, placido e ribollente, che sa portare con disinvoltura il peso dell’intero film. Non sarà la sarabanda blasfema che aveva in mente Bunuel (nel suo finale, il demoniaco Ambrosio diveniva papa), ma Le moine è un film che prova, e in parte riesce, a riconciliare con un aspetto della settima arte che da molti anni sembrava dimenticato.