Parola al Cinema

28/03/09 - A fronte di una propria notevole forza narrativa, “Frozen River” di Courtney...

Parola al Cinema – Uno sguardo sulla sceneggiatura

Neve e crimine: clichè o realismo?

(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)

parola-al-cinema_def28/03/09 – A fronte di una propria notevole forza narrativa, “Frozen River” di Courtney Hunt non arriva totalmente nuovo nelle sale. àˆ il buon ultimo di una tendenza narrativa americana che ha acquisito forza e costanza negli ultimi 10 anni; il noir ambientato nella sterminata provincia americana, preferibilmente squallida, preferibilmente innevata, preferibilmente mossa da una sete di denaro che trascina i personaggi a un passo da, o più spesso oltre, la tragedia. I parenti più diretti paiono essere “Fargo” di Joel Coen e “Soldi sporchi” di Sam Raimi, in cui a loro volta dominano neve, sete di denaro, disagio, omicidio. Ma, allargando i requisiti di somiglianza, potremmo ricordare anche “Affliction” di Paul Schrader, sia pure meno noir e più dramma privato, dove il sangue che finisce per imporporare la neve non trova la sua ragion d`essere nel denaro, ma nientemeno che in un disperato e casuale/non casuale parricidio. “Frozen River”, in realtà , porta solo la veste di un noir, i tratti esteriori; non scorre un filo di sangue (pur sfiorando la massima tragedia come la scampata morte per assideramento di un neonato), ci si muove tra discriminazione razziale, contrabbando di denaro e di clandestini, tra le miserie di una riserva indiana. Si respira violenza latente in quasi tutti i rapporti umani messi in gioco, ma ciononostante quel che sembra premere di più all`autrice è la progressiva emersione di un autentico sentimento umano in un simile contesto, ossia l`amicizia tra due donne, nata e maturata da presupposti tutt`altro che favorevoli. Quindi noir nella struttura, non nell`anima.

Resta comunque il costante ritorno del cinema americano a tali luoghi narrativi, e in tal senso è assai difficile stabilire il confine tra analisi psico-sociale e clichè narrativo. In altre parole, quanto credono gli autori a ciò che raccontano? Quanto appartiene ai luoghi comuni del noir e a una riproposizione critica degli stessi, e quanto a un intento di nuovo realismo sociale sugli Stati Uniti? Verrebbe da dire che, pur con chiavi e ispirazioni individuali ben distinte, nessuno degli autori chiamati in causa ha aspirazioni di realismo. “Fargo”, come sempre nei fratelli Coen, appare un gioco narrativo totalmente compreso di sè, che conosce fin troppo bene le regole del noir e le scardina, le mette in crisi, oppure le dissacra con l`arma invincibile (ma anche più scontata) del grottesco. La sua maggior debolezza, risiede proprio nell’emergere qua e là  di accenti di realismo, se non sociale quantomeno psicologico, del tutto fuori registro e ignoti all`universo dei Coen (penso al ritratto dell`infido marito dell`ostaggio, o alla finale indignazione della sceriffa Frances McDormand). “Soldi sporchi” di Sam Raimi si configura, a sua volta, come un gioco ancor più puro di “Fargo”, visto che ripropone passo per passo il classico percorso denaro-avidità -omicidio-perdizione, senza il grottesco dei Coen e senza alcun cenno alla “realtࠔ dei personaggi. Con lo spiacevole risultato di proporsi come un racconto perfetto, la tipica sceneggiatura a orologeria, in cui però non crediamo a nessuno dei personaggi narrati, nemmeno alla patetica figura del fratello ritardato benissimo interpretata da Billy Bob Thornton.

Vi sono, invece, racconti scabri e disperanti come “Affliction”, in cui però il totale pessimismo sembra una scelta “di testa”, a monte di tutto il progetto cinematografico, più che una vera sensibilità  verso la realtà  dei personaggi. Oppure drammi provinciali come “In the Bedroom” di Todd Field (ci allontaniamo un po`, ma si tratta sempre di un film che ruota intorno a un atroce delitto) dove l`analisi dell`elaborazione di un tragico lutto non riesce a staccarsi mai da un radicato moralismo tipicamente americano. Ossia il racconto è tutto piegato a dimostrare una tesi psico-sociale che, di nuovo, sta a monte di tutto il film. Segno evidente, forse, di quell`endemica incapacità  realista del cinema americano, che preferisce il racconto in sè all`analisi dei personaggi, e demanda all`Europa il compito di parlarci dell`essere umano.