CSI 1.0: La strada del mistero

Un noir del 1950 diretto con mano ferma da John Sturges nel quale ritrovare le radici del franchising seriale più famoso della tv.

Flussi seriali – Percorsi e influenze odierne e vintage delle serie americane a cura di Erminio Fischetti

flussi-serialiSi sa che al cinema il noir cupo e realistico del dopoguerra americano ha fatto scuola nelle generazioni di filmmaker successivi. Opere asciutte ispirate a loro volta a un’estetica europea che depauperava la società e la vita stessa dai facili sentimentalismi non più in grado di attecchire nella generazione di giovani americani che aveva combattuto la guerra su due fronti: il Pacifico e l’Europa. Ma in pochi sospettano che persino il franchising CSI (composto dall’originale CSI: Crime Scene Investigation e i successivi CSI: Miami e CSI: NY) trova le sue origini in quel genere. Perché già più di sessant’anni fa gli aspetti tecnici delle indagini per omicidio, le ricostruzioni di identità, stile di vita, lavoro, età attraverso i mezzi della scienza che analizzavano ossa e fluidi di corpi non reclamati venivano raccontati in un affascinante noir del 1950 diretto da John Sturges, La strada del mistero (appena uscito nella collana Noir d’Essai per Cecchi Gori Home Video). È questo il punto innovativo che il soggettista Leonard Spigelgass costruisce intorno alla solita storia di cronaca di una giovane e bella ballerina 24enne le cui spoglie vengono ritrovate, mesi dopo il suo assassinio, sulla spiaggia di Cape Cod. Non si conosce la sua identità, ma ben presto attraverso le indagini scientifiche compiute da un patologo di Harvard tutti i nodi vengono al pettine così da poter aiutare il detective assegnato alle indagini a sciogliere il bandolo della matassa e salvare un innocente da un’accusa ingiusta.

Al soggetto, candidato all’Oscar, di Spigelgass contribuisce la sceneggiatura di Sydney Boehm e di un giovane Richard Brooks, che mescolano, ai meccanismi ben oleati del genere, classici della cronaca nera che tanto attecchisce sulle masse (la morte di una giovane e bella ragazza perduta, sola al mondo e incinta di un uomo sposato e con una posizione rispettabile, la vecchia impicciona e ubriacona incline al ricatto che sa più di quello che vuol far credere, il malcapitato che si trova nel posto sbagliato al momento sbagliato), uniti a un’analisi sociale densa delle evoluzioni del periodo storico e dei cambiamenti di classe (costante poi della carriera del Brooks romanziere, regista e sceneggiatore, cavalcatore di generi nell’estetica della ripresa e della forma della scrittura): l’investigatore è un giovane immigrato, la moglie dell’innocente ha subito un aborto, la padrona di casa della vittima è un’alcolizzata. Sembra davvero di essere al cospetto di un episodio di CSI per come si sviluppa lo schema narrativo, dal prologo in cui lo spettatore segue la vittima nei suoi ultimi istanti di vita prima di essere assassinata al ritrovamento del cadavere, all’interazione fra scientifica e investigatori nell’analisi delle prove patologiche e balistiche, nella ricostruzione, certo in questo caso non arricchita da tutti quei mezzi tecnici sofisticati di ultima generazione, ma molto precisa per l’epoca, nell’interazione con il primo sospetto e i suoi famigliari, nell’elemento disturbante, in questo caso rappresentato dalla padrona di casa impicciona (incarnata da una Elsa Lanchester, che come sempre regala una prova di carattere da antologia), nella scoperta finale del vero assassino e nel suo arresto. A guidare questa sorta di CSI 1.0 un regista di genere, solo in apparenza, come John Sturges, popolarmente ricordato per tre classici dal montaggio tesissimo come La grande fuga, Sfida all’O.K. Corral e Giorno maledetto, dove il reduce senza braccio Spencer Tracy cerca la sua vendetta in una cittadina di provincia del dopoguerra. Sturges è di quegli autori che entra nei generi e li rimpasta, realizza film sociali con la struttura del western, film di guerra con quella del prison movie, ma la sua costante è il realismo, il ritratto di un mondo privo di speranza, che vince, ma perde inesorabilmente nel destino crudele del mondo, proprio come accade a Tracy nel finale di Giorno maledetto. Succede anche in questo La strada del mistero, pellicola non ancora perfetta come le successive, ma già capace di essere prototipo della sua poetica, nonostante sia perfettamente incasellata nell’artigianato dell’epoca.

Un film stranamente prodotto dalla MGM, ma che per temi ed estetica sembra più appartenere al parco della United Artists o della Fox. Il cattivo viene preso, l’happy ending è assicurato, ma è forte l’inquietudine di un mondo che ha smesso da tempo di credere alla favole. Questo lo capisce il detective Morales nel 1950 allo stesso modo in cui lo capirà Grissom esattamente 50 anni dopo con l’ingresso del nuovo disgraziato millennio. E pensare che recentemente serie tv poliziesche come Copper, Ripper Street e la più noiosa I misteri di Murdoch vengono paragonate e pubblicizzate come versioni in costume ottocentesco di CSI, dove il metodo classico delle indagini deduttive si mescola a quelle di natura scientifica. Ma d’altro canto un rapporto molto stretto all’epoca stessa fra cinema e serialità avveniva con un altro noir, quel The Naked City di Jules Dassin del 1948, fonte di lì a pochi anni di una serie tv omonima che ha fatto storia. Della serie… nessuno ha inventato nulla!