Reportero

Uno degli otto titoli del tour Mondovisioni, il film di Bernardo Ruiz ci porta in Messico dove il settimanale indipendente Zeta realizza inchieste scomode e dove i suoi giornalisti, per quelle verità, rischiano la vita.

Il giornalismo d’inchiesta che nuoce ai cartelli criminali e al potere politico tanto da dover essere eliminato. Come la settimana scorsa presentiamo uno degli ottimi documentari che fanno parte del tour Mondovisioni, una selezione di otto film su temi di attualità che verranno presentati, dopo il Festival di Internazionale a Ferrara, in tante città italiane (info e date del tour: www.cineagenzia.it).

Reportero di Bernardo Ruiz affronta il tema del giornalismo d’inchiesta in Messico, nella città di confine con gli Stati Uniti, Tijuana dove il narcotraffico e la corruzione delle istituzioni sono problemi reali con i quali i cittadini devono fare i conti tutti i giorni. E per sapere la verità, per conoscere davvero la cronologia di determinati episodi, cosa si nasconde dietro a un ennesimo attentato, i cittadini hanno un solo strumento: la stampa libera e coraggiosa. Dal 2006 sono 40 i giornalisti morti o scomparsi in Messico e solo nel settimanale Zeta si contano 2 vittime. Un prezzo altissimo. Sergio Haro, reporter di Zeta, è la voce narrante – spesso sorretto nel racconto dalla sua direttrice Adele Navarro -, il traghettatore del documentario. Ripercorriamo la sua “scelta di vita” da quando iniziò a collaborare con il giornale fondato da Jesùs Blancornelas nel 1972, in un Messico dove governava il Partito Rivoluzionario Istituzionale con un sistema di gerarchi intolleranti verso qualsiasi forza di dissenso. Blancornelas fondò una testata di proprietà dei giornalisti perché venne licenziato da tutte le altre voci di regime, per la sua incolumità era costretto a vivere in California e, aiutato dalla moglie, portava a termine le sue inchieste e consegnava i suoi articoli. Poi la rivista andava in stampa, come ancora oggi, negli Stati Uniti e portata in 30000 copie in Messico; altra tutela necessaria per garantire l’arrivo in edicola. Ogni settimana 92-96 pagine raccontano soprattutto quello che accade nel mercato della droga, dove si contano 7492 morti solo negli ultimi 10 anni nelle guerra tra i vari cartelli per la supremazia sul territorio. E anche se il nuovo Presidente della Repubblica, Felipe Caldèron Hinojosa, ha dichiarato guerra al narcotraffico, deve fare i conti con un sistema potente, influente e purtroppo, con le forti collusioni che esistono tra criminalità e politica. Francisco Ortiz, giornalista di Zeta, morì nel 2004 per un’inchiesta proprio su questo versante (articolo che volle fortemente firmare anche se il direttore era contrario e con esso tutti i suoi colleghi): collusione tra procuratore generale col cartello di Sinaloa. Il reporter-narratore Haro ricorda e descrive bene quell’episodio, come l’attentato a Blancornelas qualche anno prima, dal quale il direttore si salvò solo perché un colpo di rimbalzo uccise il suo sicario. Haro è segnato da tutti questi attentati e, soprattutto da quello che portò alla morte il giornalista Benjamin Flores col quale aveva fondato all’inizio dello stesso anno, il 1997, il settimanale Siete diàs. Dopo tale colpo Haro non ebbe la forza di continuare a portare in edicola da solo la rivista e tornò a lavorare per Zeta. Continua ad appassionarsi alle storie che insegue nei piccoli paesi messicani, nei tribunali, nelle strade, fotografando i cimiteri abbandonati, le strade pubbliche dove ancora si viene uccisi. Aiuta i nuovi redattori a realizzare servizi che sappiano coinvolgere la gente. Le sue foto dei corpi di uomini uccisi riversi a terra, ricordano molto la sequenza mostrata anche da Marco Turco nel film: In un altro paese dove si elencano i morti di mafia in Sicilia. Stesse barbarie di un antistato che fa le sue leggi e governa intere zone di territorio in Italia come in Messico. Ieri come oggi.

Le immagini del film scorrono lente tra uno scatto e l’altro di Haro, con una cura attenta, quasi maniacale dei dettagli, in lunghe carrellate. Ruiz che – dopo anni di lavoro per la televisione nel 2007 ha fondato Quiet Pictures, una sua casa di produzione indipendente, proprio per poter raccontare storie come questa – sa calibrare le inquadrature sui volti dei reporter che si susseguono nel racconto, come gli spazi che li circondano: la redazione come le loro auto oggi dotate di vetri antiproiettile, le zone rocciose del territorio. E la gente comune. Spesso Ruiz gioca con metafore elementari ed efficaci: si pensi solo alla sequenza iniziale dove viene inquadrato l’asfalto, poi la linea continua che divide le due carreggiate e al volante ci viene mostrato per la prima volta Haro che per percorrere la via lineare della verità rischia ogni giorno la vita con i suoi scatti e le sue inchieste per Zeta. Ottimo anche il lavoro di montaggio perché il film ha un buon ritmo sapendo alternare in maniera equilibrata il racconto dei testimoni oggi, con le diverse foto di repertorio, tenendo alto il livello di attenzione degli spettatori. Sullo sfondo del racconto, indimenticabile, resterà a lungo nei nostri occhi, il dettaglio a schermo intero della tessera da giornalista di Haro: una foto, il nome e la semplice parola Reportero. Una scelta di vita per la libertà e la ricerca di democrazia.