Damiano Damiani: l’impegno e il romanzo nel cinema italiano

Scompare a 90 anni uno dei padri del cinema italiano d'impegno civile. Diresse anche la prima "Piovra" in tv.

Nel bene e nel male, Damiano Damiani è stato un punto di riferimento di tutta una generazione, un autore di grande successo popolare e un fondatore di convenzioni. Per molti questo è più un difetto che un pregio, ma al di là dei giudizi di valore resta il dato oggettivo di un autore che ha caratterizzato un’epoca, generato un filone, e che ha contribuito all’esportazione del cinema italiano all’estero sotto una nuova etichetta commerciale. Tra la fine degli anni ’60 e tutti gli anni ’70, infatti, Damiani ha cesellato un modello di spettacolo popolare sui generis, il “giallo civile all’italiana”, che mescolava l’atto di denuncia alla narrazione serrata di un poliziesco di derivazione sia autoctona sia americana. Si tratta di una “creazione d’epoca” piuttosto originale, qualcosa di mai visto ad altre latitudini, qualcosa di strettamente italiano. Ovunque, a partire dagli Stati Uniti, sono fioriti da sempre infatti i noir a sfondo sociale, ma raramente si è vista la grande narrazione tradizionale sposarsi alla militanza, al coinvolgimento diretto nel dibattito politico del tempo. Cinema di conclamato impegno e di scaltrissimo intrattenimento. Paradossalmente, fu proprio la critica più a sinistra ad attaccare duramente il cinema di Damiano Damiani (così come accadeva a Elio Petri), e con buone ragioni, oltretutto. Le accuse più frequenti riguardavano lo spudorato didascalismo di quel cinema e il suo pescare a piene mani nel qualunquismo populistico. Tutto piuttosto vero, poiché Il giorno della civetta (1968), Confessione di un commissario di polizia al procuratore della repubblica (1971), L’istruttoria è chiusa: dimentichi (1971), Perché si uccide un magistrato (1976) Io ho paura (1977), alcuni esempi tra i suoi titoli, sono tutti accomunati da un presupposto narrativo abusato e comunque assai rispondente al sentire popolare di quegli anni: la corruzione delle forze dell’ordine e della magistratura, le collusioni tra mafia e poteri istituzionali, un’immagine generale del nostro Paese come di una tela di ragno estremamente ramificata.

Damiani non si sbagliava più di tanto sull’Italia del tempo, ma quello che la critica gli rimproverava era l’approccio acritico e populistico, spesso francamente rozzo e a pronta presa. Tuttavia, era innegabile la sua capacità di raccontare “in romanzesco”, di enfatizzare in senso popolare. Nella realtà non avverranno mai dialoghi stentorei e declamati come i famosi scambi tra Franco Nero e Lee J. Cobb in Il giorno della civetta. Ma pochi altri fenomeni cinematografici hanno creato in Italia un’ondata d’identificazione tra pubblico e racconto come il cinema civile di quegli anni. I film di Damiani erano quelli che ai nostri genitori facevano sussurrare, seri e convinti, “Eh sì, funziona proprio così in Italia”. Un cinema persuasivo come pochi altri nella nostra storia. Damiano Damiani ha composto in realtà una filmografia più varia di quanto si pensa. Ha realizzato tra gli altri L’isola di Arturo (1962) da Elsa Morante, La noia (1963) da Alberto Moravia, l’ottimo spaghetti-western Quién sabe? (1966), l’angoscioso Girolimoni, il mostro di Roma (1972) con un grande Nino Manfredi. C’è però un necessario recupero che deve essere richiesto a gran voce. Da anni è irreperibile La rimpatriata (1963), un “Amici miei” ante litteram acido e struggente come solo la grande commedia italiana anni ’60 sapeva essere. E’ ricomparso in una retrospettiva veneziana qualche anno fa, per poi sparire di nuovo nel nulla. Un vero peccato, poiché si tratta di uno dei film migliori di Damiani, impreziosito da una prova superba di Walter Chiari. Ora che Damiani ci ha lasciato sarebbe un gran bell’omaggio una sua riedizione in home video.

Leggi anche il nostro approfondimento su “Il giorno della civetta” a questo link

MASSIMILIANO SCHIAVONI