A Lecce deludono The Dead and the Living e Ships

Il tedesco The Dead and the Living e il turco Ships chiudono il concorso al Festival del Cinema Europeo di Lecce con discorsi esteticamente non brillantissimi e con uno stile ormai uniformato a livello continentale.

Shoah. Tema nobile, di cui è obbrobrioso anche solo pensare che abbia esaurito le sue possibilità narrative al cinema. Di fronte a una tale tragedia di inestimabile portata umana, spesso il cinema smette di essere cinema, per diventare a sua volta strumento di memoria storica. Tutto può e deve contribuire al mantenimento della memoria, facoltà umana a grosso rischio di polverizzazione negli ultimi decenni, e in tal senso diventano secondarie le considerazioni estetiche sul fatto-cinema quando un nuovo film torna a parlarci di uno dei genocidi più barbari che la storia dell’uomo possa annoverare. Tuttavia, si resta un po’ perplessi di fronte a operazioni come The Dead and the Living di Barbara Albert, passato oggi in concorso al Festival di Lecce, che attraverso il percorso di una giovane venticinquenne intarsia un cammino di scoperta individuale con la ferita universale della Shoah. Barbara Albert fa scelte ben precise: macchina a mano, uso strategico e centellinato della musica in forma di canzoni pop-rock, e il pedinamento di un personaggio centrale. Sita, ragazza di origini romene, scopre che il nonno moribondo è stato in gioventù un SS. Questo la conduce a compiere un viaggio fisico e dell’anima attraverso buona parte dell’Europa che è stata teatro della barbarie nazista: dall’Austria alla Germania, alla Polonia, alla Transilvania (da cui la sua famiglia proviene), passando per il Museo della Memoria di Auschwitz-Birkenau dove suo nonno visse in servizio con la moglie e mise su famiglia. Il film della Albert lascia perplessi perché sostanzialmente aderente a una sorta di neo-accademismo europeo. La macchina a mano, il racconto ansiogeno e il pedinamento narrativo di una scoperta delle proprie origini e radici storiche non sorprendono ormai più nessuno. Così come la presa di coscienza di Germania e Austria riguardo ai propri crimini è materia abusata e condotta dalla Albert con strumenti in fin dei conti convenzionali. Di più: anche l’ex-nazista visto con sguardo “umano”, che dice di non aver mai provato senso di colpa sul crinale tra operatività professionale e incoscienza personale, non sconvolge più alcuna platea (vedemmo già a tal proposito il superficiale The Reader di Stephen Daldry). Perciò, se c’è sempre bisogno di “fare memoria” sulla Shoah, d’altro canto l’urgenza creativa della Albert (ma non solo la sua) è meno chiara e riconoscibile.

Non convince di più l’altro film in concorso, il turco Ships di Elif Refig, vicenda trasognata di Alì, un giovane portuale che lavora per il padre dispotico in orizzonti sociali afosi e ristretti. Vagheggiando fughe per mare ogni volta che vede partire grandi navi (una di loro, simbolicamente, si chiama “Vamos”), Alì conosce poi una ragazza che di notte fa a sua volta graffiti a tematica navale. Se da un lato l’incipit fa pensare a un eccentrico “neorealismo” mediorientale, arricchito di momenti di garbato umorismo, dall’altro Ships si trasforma poi a poco a poco in una prevedibile commedia trans-europea, smussata in tutti gli angoli e apprezzabile solo per una dimensione onirica abbastanza inedita. Evidentemente il linguaggio trasversale del cinema medio europeo è arrivato fino alla moderna Turchia dalle ambizioni comunitarie. Bene per la Comunità Europea, peccato per il cinema.

MASSIMILIANO SCHIAVONI