Intervista a Jia Zhangke

11/07/09 - Ospite d'onore alla settima edizione dell'Asian Film Festival, il grande regista cinese...

Ospite d’onore alla settima edizione dell’Asian Film Festival, il grande regista cinese parla della sua opera e delle sue impressioni sul cinema contemporaneo

(A cura di Alessandro Aniballi e Roberto Castrogiovanni, con la consulenza di Marta Deledda per la pittura tradizionale cinese)

jia-zhang-keIl tuo cinema ha una vocazione realista, che però convive con elementi di finzione, sia nei film più apertamente documentari in cui vengono inseriti dei tratti di fiction, sia al contrario nei tuoi lungometraggi di fiction dove appaiono evidenti i richiami alla pratica documentaria.
Non credo che ci sia questo grande divario tra fiction e documentario, quel che cerco di fare è raccontare la realtà  e lo si può fare anche attraverso la fiction. Esiste un tipo di realtà  che non possiamo registrare così com`è, ma che possiamo rendere solo attraverso l`immaginazione. E anche se è la nostra immaginazione è comunque un tipo di realtà  possibile.

Questo discorso della rappresentazione della realtà  come si unisce ad un certo punto del tuo percorso cinematografico con la decisione di girare i tuoi film in digitale?
Adoro il digitale, perchè ti puoi avvicinare molto ai visi delle persone e oltretutto facilita il lavoro, visto che richiede una troupe più leggera e poi permette di agire anche in fase di post-produzione, con la correzione dei colori per esempio. Poi ho iniziato studiando arte e quindi con il digitale sento di avere la stessa libertà  creativa.

Diversi tuoi film, come “Unknown Pleasures” e “Still Life” ad esempio, iniziano con delle inquadrature molto particolari: delle panoramiche a 360° che mostrano l`ambiente in cui si trovano i personaggi. àˆ possibile che questo sia un richiamo alla pittura tradizionale cinese, alla pittura sui rotoli di carta?
Sì. Ho studiato arte per tre anni e mi ispiro molto alla pittura tradizionale cinese. E poi attraverso questo tipo di inquadrature mi posso permettere di riprendere molti visi differenti. Inoltre, il rapporto con l`arte lo sento ancora molto, perchè ho molti amici che lavorano nel campo artistico e mi interessa documentare quello che fanno. In “Dong” ho seguito il pittore Liu Xiaodong che ritrae degli operai, mentre in “Useless” ho ripreso la stilista Ma Ke e la sua collezione di moda, creata a partire da poverissimi abiti tradizionali.

Nel tuo cinema ci sono peròanche molte messe in scena di performance dal vivo, a partire dal karaoke, per poi passare alla danza, al canto, a piccoli spettacoli teatrali. Dimostri perciò anche una attenzione particolare alla cultura popolare. Ritieni in questo modo di poter raccontare meglio il modo in cui cambia la Cina?
Attraverso il canto e il ballo si possono vedere le emozioni dei cinesi, che di solito non amano mostrare quello che sentono, perchè per carattere sono abbastanza chiusi. In queste situazioni invece si vede l`essere umano e se ne possono percepire le autentiche emozioni. Adoro mostrare questo anche perchè prima della riforma degli anni Ottanta [che segna l`ingresso della Cina nell`economia di mercato, ndr] non c`era molta libertà  di esprimersi. Tutte le rappresentazioni erano incentrate sul lavoro e sul sentire collettivo e dunque non v`era spazio per l`individualità . Ho vissuto quegli anni e apprezzo molto il cambiamento che è sopraggiunto. Adesso ogni anno ci sono delle canzoni pop che diventano famosissime e che riescono a rappresentare i sogni e le speranze dei ragazzi cinesi.

Questo cambiamento delle rappresentazioni si sente in particolare in “Platform”, in cui si inizia con rigide messe in scena maoiste riprese frontalmente, per poi passare a forme di spettacolo più libere. Nel finale arrivi addirittura a mostrare due ragazze che ballano ai bordi di una strada. Non credi però che questo abbia significato anche un certo impoverimento, una degradazione, un passaggio al kitsch?
Non lo considero un impoverimento. Proprio perchè durante il comunismo tutto era finanziato dallo Stato, le cose sembravano fatte in grande; poi però la liberazione dei costumi ha permesso anche la libertà  di ballare ai bordi di una strada. àˆ un fatto positivo.

In “Unknown Pleasures” reciti la parte di un uomo che canta per strada, come mai?
Ah [ride, ndr.], è successo solamente che l`attore che doveva farlo si è tirato indietro all`ultimo momento e quindi l`ho sostituito io.

Una delle cose che più colpisce nei tuoi film è l`amore verso i personaggi, l`approccio umanista che hai verso di loro. In questo è molto importante il contributo degli attori. Come li dirigi? E perchè usi spesso gli stessi attori, a partire proprio da Zhao Tao [compagna del regista, che lavora con lui a partire da “Platform”, il suo secondo lungometraggio, ndr.]?
Scelgo spesso gli stessi attori, perchè comunico bene con loro, capiscono subito quello che voglio. E poi amo registrarne la crescita e l`evoluzione, non solo a livello professionale. Mi piace mostrare come agisce su di loro lo scorrere del tempo.

Gli lasci libertà  d`improvvisare?
Sì, amo la spontaneità  negli attori, soprattutto a livello linguistico. Basta che l`attore sappia esprimere bene l`idea che ho del suo personaggio e poi ha la totale libertà  di potersi esprimere.

A proposito, è vero che spesso i tuoi attori recitano in dialetto piuttosto che nella lingua ufficiale e codificata?
Sì, spesso li faccio recitare con il loro dialetto di provenienza. Zhao Tao ad esempio a volte recita in dialetto Shanxi, che è la provincia in cui è nata [provincia a Nord-est della Cina, la stessa da cui proviene Jia Zhangke, ndr]. In questo modo c`è molta più spontaneità . àˆ una cosa che preferisco rispetto a quel che succede di solito al cinema e cioè all`imposizione del mandarino come lingua ufficiale.

In diversi tuoi film capita che ci siano dei personaggi in un locale e che le loro parole vengano in qualche modo disturbate da quel che succede intorno.
Succede questo proprio perchè voglio rappresentare la realtà  della situazione. In Cina, nei luoghi pubblici la gente parla a voce molto alta e quindi mi sembrerebbe inutile mostrare due persone che parlano tranquillamente perchè farei qualcosa di innaturale.

Esiste una rottura forte tra la Quinta Generazione dei registi cinesi, come Zhang Yimou, Chen Kaige e Tian Zhuangzhuang, e la successiva, la tua, di Zhang Yuan e di Wang Xiaoshuai?
C`è molta differenza, perchè le tematiche dei registi della Quinta Generazione sono soprattutto storiche, mentre poi si è cominciato a parlare più apertamente di attualità .

A proposito di questo, in Europa abbiamo preso l`abitudine a classificare i registi cinesi secondo questa rigida categorizzazione: Prima Generazione, Seconda, ecc [in base alla frequenza all`Accademia del Cinema di Pechino, ndr.]. Secondo te oggi per i nuovi cineasti è ancora valida questa distinzione oppure no? E tu senti di far parte della Sesta Generazione?
Fino alla Sesta sì, è una classificazione che può essere valida. Abbiamo lo stesso tipo di memoria, di ricordi. Se per i registi della Quinta Generazione il sentire comune era la fine della Rivoluzione Culturale, per quelli della Sesta, cui sento di appartenere anch`io, c`è il ricordo dell`Ottantanove, degli scontri di Piazza Tiananmen. àˆ identica l`atmosfera che abbiamo vissuto ed è questo sentimento che poi cerchiamo di far passare nei nostri film. Oggi invece questa distinzione non è più giusta perchè c`è un maggior individualismo.

Ci sono dei registi che consideri come tuoi maestri?
Antonioni, Bresson, Ozu, Hou Hsiao-hsien. Anche il Neorealismo, registi come Rossellini e De Sica. Tra i cinesi, oltre a Hou Hsiao-hsien, amo anche Fei Mu [regista della prima metà  del Novecento, il cui capolavoro “Spring in a Small Town”, 1948, è considerato oggi un caposaldo della storia del cinema cinese. Nel 2002 Tian Zhuangzhuang ne ha fatto un remake. Nel 2005 nell`ambito di una rassegna sul cinema cinese, il film di Fei Mu venne proiettato alla Mostra di Venezia e per l`occasione Mà¼ller chiamò a presentare la proiezione nientemeno che il regista d`action hongkonghese, John Woo. Ciò dimostra quanta influenza abbia Fei Mu su cineasti anche di differente estrazione, ndr].