Giulio Andreotti: pop-cinema e Potere

Scomparso a 94 anni, Andreotti si lascia alle spalle un rapporto poco illuminato col cinema. E intanto il cinema lo trasforma in figura pop.

Giulio Andreotti è un’icona pop. Forse può sembrare facile e scontato dirlo adesso dopo che Paolo Sorrentino ci ha regalato un film importante come Il Divo, che partiva proprio da questo presupposto per condurre un’indagine con cupo gusto grottesco su Potere e conservazione del Potere. Un grottesco alla Brecht, in cui lo sguardo cosciente e un tantino stentoreo si sposa all’uso carnevalesco di una figura così fortemente connotata sul piano fisico (indimenticabili le sequenze in cui Andreotti-Servillo fa capolino, incongruo, in situazioni mondane). Tuttavia, il processo di astrazione a cui la figura di Andreotti è andato incontro nel nostro cinema parte da lontano, addirittura da situazioni platealmente degradate come la parodia più immediata e sbrindellata della somiglianza e dell’imitazione. C’è tutto un cinema italiano, non particolarmente dignitoso, in cui è pure difficile tracciare confini netti tra alto e basso, tanto il grezzo ridicolo è comune a intenti distanti. Così ci troviamo a intristirci dei sosia abborracciati dell’intellighenzia democristiana utilizzati da Giuseppe Ferrara per i suoi rozzi instant-movie tanto quanto ci pareva di una comicità imbarazzante tutta la squadra dei sosia del Bagaglino, Oreste Lionello in veste di Andreotti compreso. Di tale veste grottesca e aggressiva si fa forte anche il cinema politico anni Settanta; da un lato i morbosi riti di Todo Modo (1976) di Elio Petri, dall’altro i documentari-pamphlet come Forza Italia! (1977) di Roberto Faenza, di cui negli anni ’90 fu sequestrata una copia dalla magistratura di Palermo poiché si credeva che in alcuni fotogrammi Andreotti apparisse a fianco di esponenti mafiosi. A suo modo, anche Bellocchio è stato pop e postmoderno nel finale di Buongiorno, notte (2003), in cui tutta la nomenklatura democristiana, Andreotti in testa, passa in rassegna nelle immagini di repertorio del funerale di Aldo Moro con commento musicale dei Pink Floyd. Un cinema “democristianologico”, potremmo dire. Ma niente è altrettanto grottesco, in realtà, quanto l’apparizione del vero Andreotti in un incredibile spottone cucitogli addosso dall’amico Alberto Sordi in Il tassinaro (1983), quando l’Albertone nazionale caricò sul taxi il “Divo Giulio” per erigere un monumento al qualunquismo.

Tra i tanti danni che Giulio Andreotti ha combinato, non manca anche una puntatina in ambito di censura cinematografica. E’ infatti lui, all’epoca giovane sottosegretario allo Spettacolo, a presentare nel 1949 una legge molto italiana sulla regolamentazione censoria di ciò che poteva o non poteva essere mostrato. Una legge, incredibilmente, che tramite alcuni aggiornamenti è in pratica alla base delle attuali normative al riguardo e che, per permettere ai film di accedere ai finanziamenti pubblici, di fatto instaurava un regime di censura preventiva, o di ancor più preventiva autocensura degli autori (a vedere certe opere anodine dei nostri anni, cerchiobottiste e lontane da qualsiasi idea di coraggio, viene da pensare che il meccanismo funziona ancora benissimo). Sono anni difficili per i registi italiani, specialmente per quelli più dotati, che portano avanti un drammatico braccio di ferro film dopo film contro un potere soffocante e unilaterale. Andreotti non amava particolarmente il neorealismo (come dimenticare le critiche a Umberto D. e la celebre battuta: “I panni sporchi si lavano in famiglia”…) e più avanti vita dura ebbero La dolce vita, Rocco e i suoi fratelli, Le notti di Cabiria, L’avventura, ma anche molti film di Totò: tutti vittime più o meno urlate di ostracismi e accoglienze scandalizzate dai benpensanti DC e dalle loro claques ammaestrate. Un cinema tanto amato e premiato all’estero quanto osteggiato in patria. Così oggi Giulio Andreotti ci lascia, ma quantomeno (e temiamo non solo) resta l’effigie pop del potere da lui incarnato. Dopo la Gioconda, Marilyn Monroe, prima di Silvio Berlusconi.

MASSIMILIANO SCHIAVONI