Heli

Primo titolo in concorso al Festival di Cannes: un dramma ambientanto in Messico e diretto da Amat Escalante. Interessante anche se troppo innamorato del suo minimalismo stilistico.

Nonostante sia quasi completamente sconosciuto agli spettatori italiani, Amat Escalante oramai può definirsi a buona ragione un habitué del Festival di Cannes: sulla Croisette sono infatti stati presentati, all’interno della sezione Un certain regard, sia l’esordio Sangre che l’opera seconda Los bastardos. Non c’è dunque di che stupirsi se la sua terza incursione dietro la macchina da presa, Heli, sia stata accolta addirittura nel concorso della sessantaseiesima edizione della kermesse transalpina, aprendo ufficialmente la corsa alla Palma d’Oro. Allo stesso tempo appare quantomai azzardato preconizzare per questo doloroso film familiare la conquista dell’ambito premio…

Dopo aver descritto in Sangre le miserie quotidiane di una classe lavoratrice composta da bariste e portinai, e aver rincarato la dose con l’ancor più crudo Los bastardos, Escalante con Heli conclude una sorta di trilogia sul degrado del Messico contemporaneo.
Attraverso la storia di Heli, operaio ventenne con moglie e figlio a carico che vive ancora con il padre e la sorellina di dodici anni, e che per una serie di traversie si vede costretto a fronteggiare la ferocia belluina dei narcotrafficanti locali, il trentaquattrenne cineasta nativo di Guanajuato (nel cuore della nazione centroamericana) focalizza ulteriormente lo sguardo su una realtà disadorna, priva di qualsivoglia speranza. Una terra in cui la polizia e il cartello della droga si combattono senza esclusione di colpi, entrambi del tutto disinteressati alle sorti del popolo: dopo aver assistito alla disgregazione del proprio nucleo familiare per colpa della vendetta della malavita, Heli sarà infatti costretto a scontrarsi anche con l’ottusa burocrazia priva di umanità delle forze dell’ordine.

Questo microcosmo viene messo in scena da Escalante facendo ricorso a un minimalismo estetico che fa dell’asciuttezza della forma il proprio tratto distintivo: piani sequenza semplici e poco articolati, dilatazione dei tempi, pervicace volontà a rifuggire da qualsivoglia effetto speciale che mini la credibilità del racconto. Eppure proprio questa forte impronta autoriale, che riallaccia il cinema di Escalante a quello dell’amico e sodale Carlos Reygadas (che qui compare tra i produttori), finisce per soffocare le potenzialità di un racconto sulla carta decisamente interessante. Ben presto l’alternanza di stasi emotive e improvvisi picchi di violenza esplicita diventa fin troppo prevedibile per lo spettatore smaliziato, e il nitore stesso delle immagini – il fuori campo è relegato da subito in un ruolo di secondo piano, e ben poco viene lasciato alla fantasia del pubblico – finisce per apparire asettico, quasi un esercizio estetico privo di profondità.
Peccato, perché alcune intuizioni di Escalante sono tutt’altro che banali (si veda il modo con cui la videocamera digitale affronta le asperità di un paesaggio brullo e inospitale), e le rare digressioni grottesche lasciano ipotizzare scenari ben più luminosi. In Heli tutto viene solo abbozzato, senza che il film acquisti mai la maturità necessaria per trattare una materia così delicata e magmatica: paradigma di questa confusione narrativa è il rapporto amoroso tra il protagonista e sua moglie, incrinatosi dopo la nascita del loro bambino. Al tema Escalante trova la più banale e prevedibile delle soluzioni, senza sporcarsi particolarmente le mani: un controsenso per un film che vorrebbe mostrare la violenza in tutto il suo parossistico e ributtante sadismo, ma si limita a riprenderla sempre da un distanza di sicurezza. Senza coraggio.

RAFFAELE MEALE