Jimmy P.

In concorso a Cannes, Arnaud Desplechin prosegue la sua mappatura dell’essere umano. La sua indagine stavolta è un po’ troppo algida, ma i suoi interpreti incendiano lo schermo.

Uno degli aspetti ricorrenti del cinema di Arnaud Desplechin è la sua passione entomologica per l’essere umano. Quello dell’autore francese è un cinema pulsante di vita, capace di mettere in scena l’ineludibile sadismo insito nei sentimenti e il volto raggelato del rimpianto, scavando sotto l’epidermide di personaggi a tutto tondo ricchi di difetti e capaci di insospettabili crudeltà, verso i quali non è mai espresso alcun severo giudizio. Con Jimmy P., presentato in concorso al 66/esimo Festival di Cannes il regista di Racconto di Natale e I re e la regina riprende la sua incessante ricerca antropologica, ma si posta di latitudine per approdare nelle ampie praterie del Montana.

Protagonista della pellicola è Jimmy Picard (Benicio del Toro) nativo americano della tribù dei piedi neri che, combattendo nella secondo conflitto mondiale (la guerra è da sempre per gli americani uno strumento di integrazione, in questo caso per gli indiani, come raccontava anche Windtalkers di John Woo, in seguito, con il Vietnam, per gli afroamericani), ha riportato gravi ferite alla testa e ora soffre di dislessia e di sordità e cecità temporanee. A prendersi cura di lui sarà l’antropologo francese di origini ungheresi Georges Devereux (Mathieu Amalric), studioso della vita e delle abitudini delle popolazioni originarie del Nord America. Ispirandosi a un saggio firmato dallo stesso Devereux, ritenuto il padre della etnopsichiatria Arnaud Desplechin mette in scena un complessa relazione tra dottore e paziente, impegnati entrambi in una perigliosa ricerca oltre che nella reciproca conoscenza.

L’indagine del Dott. Devereux parte dal linguaggio del suo paziente concentrandosi sull’onomastica caratteristica della sua tribù di appartenenza, capace di rivelare dati sensibili su chi se ne fa portatore, in questo caso il nostro Jimmy Picard, noto anche come “Colui di cui tutti parlano”. L’etnologo prosegue poi scendendo nel privato del degente, affrontando un’analisi dei suoi trascorsi familiari, dei suoi rapporti con le figure femminili, dei suoi sogni. E così, seduta dopo seduta, due personaggi estremamente differenti si ritrovano a rivelarsi l’uno all’altro ed entrambi a se stessi. E il loro legame si struttura proprio all’apparire dei primi dissidi che trasformano la relazione medico-paziente in un interesse e poi affetto reciproco. Forse troppo concentrato sul suo testo di partenza e quasi bloccato in uno stile registico austero e frontale, Desplechin stavolta non riesce completamente a creare empatia verso i suoi personaggi, che restano fin troppo legati al contesto della ricerca scientifica. Anche il loro affetto sembra dunque qualcosa di già scritto, celato in una catasta di appunti ai quali è negato il passaggio allo status di racconto. Si tratta probabilmente di una scelta fatta a priori dall’autore che, innescato il meccanismo d’indagine, lascia che siano i suoi due attori, assoluti mattatori in una scena algida, ad incendiare lo schermo.

DARIA POMPONIO