Shield of Straw

Takashi Miike torna in concorso al Festival di Cannes con un action teso e crudele, messa alla berlina dell'intera società giapponese.

C’è fischio di disapprovazione e fischio di disapprovazione. Lo insegnano anni di frequentazione di festival e kermesse cinematografiche in giro per il mondo: per quanto il risultato sonoro sia pressoché sempre uguale a se stesso, il significato che assumono le bordate di fischi contro i film durante lo scorrere dei titoli di coda variano in maniera decisamente percettibile. C’è il fischio di generale dissenso verso un’opera pretenziosa che non si avvicina ai risultati sperati, quello di disgusto verso la mediocrità, quello ancora di rabbia nei confronti di qualcosa così distante da gusti ed etica del pubblico da far sì che quest’ultimo ne rimarchi con vigore la lontananza.
A questa ultima categoria, con ogni probabilità, si deve fare riferimento per cercare di comprendere fino in fondo il senso degli ululati che hanno sovrastato le immagini conclusive di Shield of Straw, il film che Takashi Miike ha portato in concorso alla sessantaseiesima edizione del Festival di Cannes. Di fronte a quello che all’apparenza sembra essere un prodotto di genere duro e puro, senza neanche troppa originalità da un punto di vista dello svolgimento della narrazione, la stampa presente sulla Croisette ha reagito con disappunto, dimostrando però di non aver colto che una piccola parte del senso di un’operazione come quella portata a termine dal prolifico cineasta nipponico.

L’ottantaseiesima regia di Miike – considerando nel computo complessivo anche i cortometraggi inseriti in film collettivi e i lavori per la televisione – parte da uno spunto piuttosto semplice, vale a dire le pericolose dinamiche che si possono formare di fronte al colore dei soldi, e lo porta avanti con notevole senso del ritmo e della suspense, ma senza i guizzi visionari per i quali è giustamente adulato da ogni cinefilo che si rispetti. La storia narra di un’improvvisata squadra di polizia alla quale viene assegnato il compito di portare sano e salvo a Tokyo Kunihide Kiyomaru, colpevole di aver stuprato e ucciso una bambina di sette anni e per questo condannato a morte via internet dal miliardario nonno della vittima, che ha promesso una ricompensa di un miliardo di yen a chiunque uccida l’uomo. Miike prende dunque un vero e proprio canovaccio dell’action poliziesco – tratto tra l’altro da un romanzo di grande successo in Giappone – e lo mette in scena in maniera diligente. Sembra di trovarsi di fronte all’opera minore di un grande cineasta, ma la verità è ben altra. Proprio nella supposta prevedibilità, nella sua mancanza di apparente eversione dallo standard, Shield of Straw racchiude al proprio interno una delle più lucide e disperate invettive di Miike contro il sistema politico, economico e morale del Giappone contemporaneo.

La caccia all’uomo cui viene spinta un’intera nazione, con la promessa di un guadagno immediato a fronte di un gesto violento ma “giustificato” dall’abominevole condotta sociale di Kiyomaru, è in realtà figlia di una nazione allo sbando, in cui il capitalismo ha generato mostri contro i quali oramai la popolazione non possiede più armi adatte da contrapporre: la crisi economica ha messo in ginocchio il Giappone, e non si intravvede una via di uscita allo sfacelo. Per lo meno non la intravvede Miike, che manda al macello i suoi protagonisti senza fare distinzione alcuna tra vittima e carnefice, sottolineando l’avidità, la sete di potere, la tensione verso il dominio che alberga nei loro animi. Non tutto funziona a dovere in Shield of Straw, ma si tratta in ogni caso di un’opera coraggiosa, fieramente distante dalla plastica dell’ovvio e dalla “semplice” messa in scena del genere, e questa è una dote che sarebbe folle non riconoscergli. Come sempre fine metteur en scène, Miike pone la firma in calce a uno dei suoi film più palesemente politici, arrivando a costruire un personaggio stratificato, complesso e contraddittorio come quello del killer pedofilo: il suo primo piano, mentre interviene in tribunale affermando “Mi dispiace, sono pentito. Se avessi saputo che era così… Ne avrei uccisi molto di più!”, mette i brividi per il cupo universo che si agita dietro tali parole.
Anche per questo appaiono particolarmente dolorosi i fischi che hanno invaso la sala durante la proiezione stampa. Al di là del giudizio sull’action in quanto tale – comunque tutt’altro che disprezzabile, per quanto standardizzato possa essere – sarebbe stato auspicabile che venisse colto il côté politico e l’urgenza espressiva di un’opera del genere. Peccato.

RAFFAELE MEALE