Solo Dio perdona

Dopo il successo di Drive, Nicolas Winding Refn torna a un cinema estetizzante ma profondamente essenziale, rigoroso e scomodo.

Fischi. Più che fischi, ululati. E poi rabbia, tanta rabbia esplosa nei corridoi del Palais du Cinéma, nelle lunghe attese in fila prima di accedere alle sale, sotto le tettoie al riparo dalla pioggia scrosciante. Nel 2011 Cannes lo aveva accolto tra grida di giubilo, tributandogli ovazioni a ogni passaggio, esaltandone il genio espressivo, ma in appena due anni Nicolas Winding Refn sembra essere diventato lo zimbello della Croisette: lo si dileggia nelle chiacchierate, all’interno degli articoli, sui social network, lo si prende addirittura a pietra di paragone negativa prima di elaborare un giudizio critico su qualsiasi altro film. La colpa? Aver presentato, all’interno del concorso ufficiale e quindi in piena corsa per la Palma d’Oro, Solo Dio perdona, lo stesso film di cui Thierry Fremaux presentò una sequenza dodici mesi fa, in una bizzarra serata alla Salle du Soixantième.

Al di là del fatto che è sempre difficile riuscire a comprendere fino in fondo le motivazioni che spingono una parte consistente del popolo degli accreditati a decidere che un film merita di ricevere i fischi, resta forte l’impressione che Solo Dio perdona sia stato respinto in modo così deciso solo perché non scende mai realmente a compromessi con il pubblico. Nel portare in scena la storia di Julian, statunitense di stanza a Bangkok per occuparsi di una palestra di muay thai e del traffico di cocaina ed eroina che si trova invischiato in una spirale di vendette trasversali e violenza senza confini allorquando il suo fratello maggiore Billy stupra e uccide una sedicenne, il cineasta danese sembra a prima vista avere tra le mani il materiale perfetto per mettere ancora una volta in scena una storia di redenzione dalla propria condizione, tema già affrontato in Drive. Ma se nel precedente film con Ryan Gosling – con il quale Winding Refn sta ipotizzando un vero e proprio sposalizio artistico – a dominare era un romanticismo quasi ottundente, mirabile fusione dell’iperrealismo hollywoodiano degli anni Ottanta e delle melanconie estatiche di Wong Kar-wai, Solo Dio perdona rappresenta in tutto e per tutto l’elogio della secchezza, dell’essenzialità. Un cinema tagliente e tagliato, letteralmente invaso di lame affilate pronta a secare arti, a squarciare gole e ventri, a dispensare una giustizia discutibile quanto effimera, che Winding Refn riduce a marchingegno meccanico privo di elucubrazioni.

Come la mente di Julian e il suo sguardo perso eternamente nel vuoto segnalano con fin troppa chiarezza – e scambiare ciò per incapacità attoriale da parte di Gosling è una bestialità – Solo Dio perdona procede per strappi, alimentandosi passo dopo passo di sequenze recise, climax svuotati di qualsiasi emozione epidermica, tagli di montaggio netti e improvvisi. La visione orgasmica architettata con cura maniacale dal regista (da un punto di vista strettamente estetico anche il più fanatico dei detrattori faticherebbe a trovare pioli ai quali appigliare la propria bocciatura) è in realtà un continuo coito interrotto, castrante come l’impotenza supposta di Julian, schiacciato da un rapporto edipico mai risolto con una madre che, per sua stessa ammissione, preferisce la virilità del figlio maggiore, quello morto. Anche per questo ogni singola azione di Julian assume i contorni di un’impossibilità eterna a liberarsi del cordone ombelicale, e la discesa agli inferi di Solo Dio perdona è in realtà l’incubo di doversi confrontare con un doloroso, squarciante e mefitico ritorno all’utero materno.

Non è un caso che il film sia dedicato ad Alejandro Jodorowsky, perché gran parte di ciò che avviene sullo schermo acquista i contorni dell’atto psicomagico, reazione logica e al contempo delirante alla frastornante brutalità del reale, del concreto, dell’ineluttabile. Come già in Pusher e in Valhalla Rising, Nicolas Winding Refn porta a termine un’opera scomoda, lucida e spiazzante, immediata come un colpo di machete e sanguinolenta come la più turpe delle vendette. Forse chi si è sgolato per fischiare i titoli di coda aveva solo voglia di sentirsi di nuovo al riparo, protetto da una coperta rassicurante.

RAFFAELE MEALE